Ennio

Ennio è un documentario ben fatto, che presenta un percorso intellettuale e artistico con il mix di rigore e facilità comunicativa necessario a un’opera di divulgazione, per di più di una materia complessa come la musica composta per il cinema. Nel panorama italiano, il paragone più immediato è tra Morricone e l’altro grande compositore di musica da film, Nino Rota. Dal punto di vista dei risultati, i due non potrebbero essere più diversi: asciutto e fondamentalmente tardoromantico Rota, barocco e di sensibilità decisamente più moderna Morricone. Certo non mancano tratti comuni ai due, come il praticare e mescolare generi diversi, o l’abilità nel rielaborare materiale proveniente da tutta la tradizione musicale; ma credo che l’orizzonte di Morricone sia più marcatamente internazionale e che il paragone più calzante sia con Bernard Herrmann, il musicista di Hitchcock, di Orson Welles e di alcuni tra i più grandi registi americani: uno stakanovista, uno sperimentatore a oltranza, capace di inventare uno strumento musicale apposito per un singolo film.

Morricone ha saputo far tesoro di qualsiasi esperienza: dall’apprendistato con Petrassi, che lo inizia al rigore contrappuntistico dei compositori rinascimentali, a quello da trombettista nelle bande e negli alberghi, da Darmstadt al lavoro di arrangiatore di canzoni per la RCA. In ciascuna di queste esperienze ha messo qualcosa dell’altra: negli arrangiamenti di canzoni ha inserito citazioni classiche, contrappunti, effetti dovuti alla pratica della ricerca sul suono a Darmstadt –come l’uso del barattolo e dell’incudine. La musica da film gli ha permesso una libertà di cui non godeva né come compositore accademico, né come arrangiatore di canzoni, e nemmeno come ricercatore sul suono a Darmstadt: mentre ciascuna di queste esperienze lo vincolava a una precisa cornice di linguaggio e stilistica, nel cinema ha potuto mescolare linguaggi e stili con maggiore spregiudicatezza –pur nel bisogno di “soddisfare se stessi, il regista e il pubblico” che non ha mai smesso di tener presente. Possiamo definire la sua musica un compromesso, ma di altissimo livello artigianale. C’era una volta il west è una partitura rigogliosa e lirica, tipica dello stile western inaugurato con Sergio Leone, ma inizia con una pagina di musica concreta, in cui i rumori ambientali sono amalgamati in modo da ricavarne un effetto sinfonico. Negli anni Settanta porta al cinema la sperimentazione musicale più avanzata, con colonne sonore improvvisate dai compositori di “Nuova consonanza” direttamente sul girato, in base a “strisce” composte da Morricone e con strumenti usati al limite delle loro possibilità timbriche. Per Mission compone un mottetto, un brano di sapore etnico e un tema per oboe costruito ampliando melodicamente gli abbellimenti settecenteschi –il mordente, l’acciaccatura ecc.-, poi li fonde in una pagina dal sapore apocalittico. Per Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto mette insieme il mandolino suonato come fosse un clavicembalo, lo scacciapensieri, il sax soprano e il contrabbasso elettrico in un pezzo breve e inquietante, debitore delle musiche di Kurt Weil per Brecht, dove i continui spostamenti ritmici e l’impasto timbrico suggeriscono i moti convulsi della psiche allucinata del protagonista. Quella di Morricone è una “musica totale”, per dirla con Gaslini.

Grande rielaboratore di materiali diversissimi, sperimentatore geniale, dotato di una capacità di lavoro sovrumana e di una creatività illimitata, Morricone è stato anche un grande compositore nel senso in cui lo sono Schubert e Stravinsky? Lui per primo ci andava cauto: “Per decidere se sono come Schubert ci vogliono duecento anni”. In realtà ne bastano meno. Il punto è se questa natura multiforme e onnivora ha saputo creare un linguaggio suo destinato a durare. Sul fatto che abbia creato un linguaggio suo credo non ci siano dubbi. Sulla durata, dobbiamo aspettare e vedere. Ma già possiamo dire che la sua influenza si fa avvertire in vari settori.

Forse, però, la cosa più sorprendente di Morricone è Morricone stesso: un uomo timido, schivo, umile, lontano dal clamore, facile a piangere e a commuoversi, con un senso altissimo della propria dignità professionale, completamente dedito al lavoro: una natura silenziosa e ascetica che ha dato vita a un universo sonoro caratterizzato da dismisura, visionarietà, barocchismo. Uno che non crede nella melodia ma compone temi che si avvicinano al concetto wagneriano di “melodia infinita”; che pensa che la musica sia finita perché sono finite le possibilità di combinare le dodici note, e che pure scrive musica nuova in quantità sterminata; che non ama lavorare per il cinema ma comprende i film meglio di chi li gira. Un mistero e una contraddizione che forse si spiegano solo in un modo: Morricone è un lavoratore, è abituato a lavorare duro e a dare il massimo. Non è rimasto un compositore accademico perché aveva bisogno di lavorare. Ha arrangiato canzoni perché era il suo lavoro, ha composto musica per film perché era il suo lavoro, e lui ha una religione del lavoro. Chiesero a Céline: “Quali sono le persone che ama?” “I costruttori.” “E quelle che odia?” “I distruttori”. “Qual è il sentimento che prova più spesso?” “Il lavoro.” Queste poche parole Morricone avrebbe potuto farle sue.

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