Murakami, Ozawa e l’arte del dialogo

Un bel libro da cui ho imparato poco rimane comunque un bel libro. Murakami e Ozawa, lo scrittore appassionato di jazz che ama anche la musica classica e il direttore d’orchestra classico che però ama anche il jazz dialogano per quasi trecento pagine senza che mai il tono del discorso subisca una caduta, senza che mai non dico s’interrompa, ma si attenui la voglia di scambiarsi punti di vista e  confrontarsi. Certo, Murakami e Ozawa sono giapponesi, e il loro modo di confrontarsi non è come il nostro: i rari disaccordi sono smorzati da una cortesia che può parere anche troppo cauta; ma il punto non è questo, è che poche altre volte un dialogo è stato veramente un dialogo e uno scambio è stato sostenuto fino alla fine dal desiderio di mantenerlo vivo. Abituati come siamo alla comunicazione con la clava tipica dell’era social non riusciamo nemmeno a concepirlo. E allora questo libro è non solo utile, ma salutare. Toccanti sono le pagine in cui i due artisti si scambiano di ruolo, e Ozawa accenna ad alcuni scrittori giapponesi o alle sue esperienze di ascoltatore di jazz, mentre Murakami segue attentamente il lavoro di “creazione” dell’esecuzione musicale di alcuni giovani allievi musicisti.

Non ci si pensa mentre si legge, ma questo dialogo permette di conoscere il punto di vista giapponese su qualcosa di -in apparenza- così intrinsecamente occidentale come la musica classica. Le riflessioni su come la musica giapponese potrebbe venire eseguita e compresa da un musicista occidentale, o su come le pause di Glenn Gould sono inconsapevolmente vicine al modo giapponese di intendere il rapporto tra silenzio e suono risultano addirittura poetiche.

Naturalmente, sono moltissimi gli aneddoti che Ozawa può rievocare sui suoi anni d’apprendistato e sui due direttori decisivi per la sua formazione: Herbert von Karajan e Leonard Bernstein. Ozawa lascia capire d’avere imparato più dal primo, che chiama reverenzialmente “Maestro Karajan”, che dal secondo, chiamato affettuosamente “Lenny” e che descrive come un genio puro, un portentoso animale musicale da cui era difficile però trarre un metodo e una lezione. Gli aneddoti, per il rigoroso Ozawa, sono sempre funzionali a un discorso più generale sulla musica e la sua esecuzione: esemplare è il modo in cui i due partono dal celebre diverbio tra Glenn Gould e Bernstein sul Primo concerto di Brahms: riascoltano la registrazione della serata -a cui Ozawa era presente- dal memorabile discorso di Bernstein che chiede al pubblico Who is the boss tra solista e direttore d’orchestra, fino all’esecuzione vera e propria, che Ozawa analizza nel dettaglio.

Non ho imparato qualcosa di nuovo, dicevo: la maggior parte delle informazioni le possedevo già, e mi sono scoperto in alcuni casi addirittura a conoscenza di registrazioni storiche che Ozawa apparentemente ignora o non ricorda. Ma è un altro il valore del libro, non certo un valore informativo: è un valore di civiltà, di civiltà estetica prima di tutto, ma anche di civiltà in senso più umano e sociale, esemplato nel costante reciproco arricchirsi di due artisti simili e diversi, che praticano discipline distanti ma con analoga libertà e rigore. Dove mi trovo in dissenso è sul modo riduttivo che hanno i due di valutare alcuni grandi interpreti del passato: il Mahler di Mengelberg è “antidiluviano” per Murakami, quello di Walter superato, addirittura Karajan qua e là è “datato”, e per Ozawa il suono di un’incisione di Bernstein è “fuori moda”. Ora, non è che le esecuzioni musicali hanno un’evoluzione lineare come quella del computer, dove il modello più recente a forza sostituisce il più antico: altrimenti non si spiegherebbe come musiche di decenni o secoli fa parlino ancora. Io credo che ascoltare le registrazioni di interpreti come Walter, Mengelberg e Klemperer, che hanno lavorato con Mahler e ricevuto da lui incoraggiamento e approvazione, sia importante per capire com’egli pensava la propria musica. Certo, c’è un primo impatto da superare, per la differenza stilistica rispetto alle esecuzioni correnti; ma poi vien fuori un patrimonio di vivacità, intensità, semplicità e non-retorica da cui c’è tutto da apprendere per chi è abituato allo stile di esecuzione assolutamente funereo dei contemporanei.

Da leggere, comunque, per chi ama la musica. Prossima tappa, il libro di Murakami coi ritratti dei grandi del jazz.

(Murakami e Ozawa, Assolutamente musica, Einaudi, 2011)

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