Il tonfo di un Icaro moderno

Il mistero di Oberwald è veramente un brutto film: e non perché il soggetto, tratto da un pomposo dramma di Cocteau, sia poco congeniale ad Antonioni, poiché dalla recitazione straniante degli attori è evidente che il regista vi si accosta con intento ironico, che lo svuota dall’interno rendendo il dramma un dramma di marionette, un puro gioco di sé. Il vero soggetto del film è la macchina: sia la macchina narrativa che “la macchina attoriale”, per dirla alla Carmelo Bene, e soprattutto le nuove tecnologie di ripresa, le loro possibilità di manipolazione dell’immagine. Il problema è che quelle tecnologie, nel 1980 quando è stato girato il film, erano meno che agli albori, e producono un risultato dilettantesco, soprattutto ai nostri occhi di oggi. Non c’è nulla di sorprendente nel fatto che Antonioni abbia deciso di svuotare la drammaturgia del film rendendola un puro pretesto per un lavoro esclusivamente formale, riducendo i personaggi a meri ruoli attanziali e gli attori a figure astratte, al limite dell’ologramma: tutta la sua filmografia, almeno da Blow up in poi, puntava là. Ciò che danneggia il film è che il suo vero soggetto, cioè la mente umana capace di sviluppare tecniche e possibilità nuove, non era ancora pronto, era immaturo. Guardiamo per confronto Incontri ravvicinati del terzo tipo di Spielberg: anche lì il vero soggetto è il progresso umano che rende possibili nuove tecnologie; ma Spielberg le conosce bene, e perciò non azzarda, non fa il passo più lungo della gamba, e non prova nemmeno a invalidare la drammaturgia del film nel momento stesso in cui lo fa: non ne ha il coraggio né lo slancio visionario. Antonioni invece è eroico, ma gli vien fuori un film non riuscito. Non è un caso che due anni dopo, con Identificazione di una donna, sostanzialmente chiuderà la propria carriera, accorgendosi di non aver più molto da dire. Al di là delle nuvole ed Eros vanno considerati, credo, come operazioni di auto-epigonismo di un regista che peraltro, a causa dell’ictus, non riusciva più nemmeno a parlare correttamente, e infatti si avvalse della co-regia di Wenders nel primo e si limitò a dirigere un episodio nel secondo. Gli eroi, quando cadono, cadono davvero, e Oberwald è un capitombolo eroico, totale, il tonfo di un Icaro contemporaneo che è andato troppo vicino al sole.

C’è una bellissima intervista in cui Antonioni, parlando con Brunello Rondi, non solo è lontanissimo da atteggiamenti apocalittici di fronte all’avanzamento tecnologico, ma mostra una curiosità verso il futuro, verso le sue possibilità espressive, che lo spinge a prevedere che le storie dell’avvenire, la psiche e i sentimenti dell’umanità dell’avvenire saranno radicalmente diversi dai suoi: il che in parte lo stiamo già vedendo. Coerentemente, egli rinunzia in partenza a dare un contenuto alle nuove possibilità di vedere e raccontare, congela il dramma in un non-dramma, in un puro spettacolo d’ombre: resta lo scheletro, la struttura del dramma, senza le passioni: saranno i posteri a riempire di contenuti quelle forme.

L’uso della musica qui non è cinematografico, ma teatrale: il finale del Don Chisciotte di Strauss, quello del Così parlò Zarathustra e la Notte trasfigurata di Schönberg sono trattati come musiche di scena, che nel momento stesso in cui creano l’atmosfera del film ne denunciano l’innaturalità. Antonioni, dunque, cade ma cade lucidamente,  generosamente, lasciando ad altri il compito di dare vita alle sue ultime geniali invenzioni.

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