Tugan Sokhiev

(a Ilaria Palomba, compagna d’avventure musicali)

Uno dei miei concerti per pianoforte e orchestra preferiti è il Secondo di Prokof’ev, e lo è soprattutto per ciò che accade poco dopo l’inizio del quarto movimento. Indicato come Allegro tempestoso, inizia come una guerriglia tra pianoforte e orchestra, col solista impegnato in repentini salti di registro e in sciabolanti schiocchi d’ottave. Il primo tema cresce, mostro meccanico dal ritmo spezzettato, e di colpo precipita dentro le note gravi del basso tuba. A questo punto scende il silenzio. È difficile evocare in musica il silenzio. Prokof’ev ci riesce facendo seguire pochi e spettrali accordi al pandemonio scatenato poco prima. A questo punto il pianoforte inizia un tema quasi improvvisandolo, come una flânerie malinconiosa. È un tema rintoccato da accordi cupi, come di campana sommersa, un tema armonicamente instabile, su cui Prokof’ev scrive pensieroso. È fra i temi più belli della storia musicale. Sembra contenere in sé tutto l’inverno di Russia.

Va da sé che, se si viene meno in quel momento, l’intero concerto perde di senso. Haochen Zhang, stasera, ha realizzato il concerto in modo meccanico, come una mitragliata di note non sempre pulite e a tratti ritmicamente incerte, ed è arrivato all’appuntamento col tema “invernale” prodigandosi in staccati un po’ isterici e disarticolando le due mani in un modo che ha reso poco percepibile il meraviglioso gioco con cui si “scambiano” il tema. Pare che in tempi di politically correct non si possa dire, ma i pianisti asiatici, non so perché, hanno questa maniera di suonare macchinalmente, senz’anima, che più che eseguire la musica sembra boicottarla dall’interno.

Per fortuna, in un concerto per pianoforte e orchestra c’è anche l’orchestra, e quella del Santa Cecilia stasera era irriconoscibile: Tugan Sokhiev l’aveva trasformata in un’orchestra russa, scalpitante e marmorea come la mitica Leningrad Philarmonic di Mravinsky. Con un bilanciamento tra le sezioni perfetto, mai sentito prima dal vivo, l’orchestra “ricreata” da Sokhiev ha sostenuto da sola il concerto, salvando la musica di Prokov’ev. Lui, Sokhiev, è dotato di una presenza magnetica: ha guidato gli orchestrali quasi senza muoversi, con una gestualità alla Temirkanov ma ridotta al minimo: qualcosa di affascinante anche per gli occhi. Il bis del pianista, di carattere ultra-virtuosistico, ha confermato sia la sua spigliata manualità sia la propensione a sporcare il suono e a prodursi in oscillazioni ritmiche che ricordano l’andatura di un ubriaco.

La bellezza orchestrale goduta nel pezzo di Prokof’ev prometteva sicuramente bene per la seconda metà del concerto; ma non ero preparato ad assistere a una specie di prodigio. Il lago dei cigni di Caikovskij lo abbiamo ascoltato tutti varie volte, ma stasera è stato come ricreato: Sokhiev non batteva il tempo, ma il suo sguardo e le sue mani erano così presenti da tenere lo stesso in pugno anche la ritmica. Con una gestualità sobria ma imperiosa, si infilava, letteralmente, in ogni arcata, ogni fraseggio, infondendo tenerezza alle trombe, una briosa follia ai legni, spianando la strada al canto degli archi. Non c’è stato un tema che suonasse “come lo abbiamo sempre sentito”: Sokhiev ha un estro per il colore che giuravamo fosse rimasto confinato nei dischi con le registrazioni storiche. E tutto questo senza agitarsi mai: a mani libere, con le dita indipendenti quanto quelle di un pianista, descriveva nell’aria la musica che ci faceva ascoltare; se allargava di poco le braccia, le dinamiche si impennavano e l’orchestra scatenava il finimondo. Il bilanciamento tra le sezioni, che spesso è il punto debole del Santa Cecilia, è rimasto impeccabile fino alla fine.

Se debbo cercare un difetto nella sua interpretazione è che non c’era un attimo di tregua: sistole vuole diastole, invece con lui non c’era mai rilascio, si restava perennemente senza fiato. Ma, sinceramente, dopo tanti concerti asettici, mi ha fatto proprio piacere restare senza fiato. Dal vivo non sempre ci si emoziona, è facile ascoltare un’esecuzione col pensiero al disco di Toscanini che si ha a casa – il che è sommamente ingiusto verso i musicisti, ma è uno degli effetti dell'”opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”, per dirla col buon Benjamin. Stavolta invece abbiamo seguito l’esecuzione col cuore in gola fino all’ultimo accordo. Aggiungo che il rapporto umano tra Sokhiev e l’orchestra, durante gli applausi, è stato uno spettacolo nello spettacolo: l’orchestra ha rumorosamente acclamato il direttore, lui ha ringraziato i musicisti ad uno ad uno, ci sono stati anche degli abbracci. Un’esibizione al calor bianco, vissuta -è questo il termine giusto- da tutti con gioia autentica: quella che avevano in volto gli orchestrali quando li si incrociava all’aperto, all’uscita degli artisti.

(Fotografia di Ilaria Palomba)

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