Prima di entrare nel nulla

Non avevo mai ascoltato con attenzione e per intero la Decima sinfonia di Mahler nella ricostruzione di Deryck Cooke: l’ultimo movimento della Nona aveva un carattere così conclusivo, una così forte suggestione testamentaria che una parte di me, pur sapendo dell’esistenza della Decima, non aveva mai voluto approfondirla. Tutte le volte che avevo ascoltato il lungo Andante-Adagio, l’unico movimento completato dall’autore, lo avevo fatto senza partecipazione -intendo dire senza reale partecipazione. E in effetti, pur essendo giunto a noi in una versione eseguibile, non possiamo escludere che Mahler l’avrebbe rivisto, come gli accadeva di fare da un’estate all’altra. Ma in quell’estate del 1910 Mahler mise da parte le pagine della Decima, diede gli ultimi ritocchi alla Nona completata l’anno prima e poi, come faceva ad ogni fine estate, depose i panni del compositore per indossare quelli del direttore d’orchestra, il suo mestiere “ufficiale”. Non arrivò all’estate successiva: il 18 maggio 1911, prima di compiere 51 anni, tornò al Creatore. All’ascolto di questo stupendo, originalissimo -perfino per lui!- Andante-Adagio, si direbbe che non tutti i direttori sanno farlo funzionare: Bernstein ci riesce, ad esempio, Boulez meno.

Per quanto si può ricavare da Quirino Principe e da articoli reperiti online, gli altri movimenti della sinfonia sono arrivati a noi in questo modo: uno Scherzo completo su quattro pentagrammi; un breve movimento di 170 battute dal curioso titolo di Purgatorio, completo su quattro pentagrammi più una trentina di battute orchestrate dall’autore; un secondo Scherzo, più o meno completo su quattro pentagrammi; e un lungo movimento lento, quasi tutto abbozzato su quattro pentagrammi, che Mahler ha cambiato più volte di posizione fino a collocarlo per ultimo, scrivendo chiaramente Finale sul frontespizio. L’ordine dei movimenti è abbastanza ipotetico, ma il secondo Scherzo e il Finale sono sicuramente collegati tra loro dall’ominosa transizione del “tamburo completamente coperto”, come indicato dallo stesso Mahler negli abbozzi, e l’amore per le simmetrie, di cui il compositore aveva già dato prova nella Settima, induce a pensare che avesse posto al centro della sinfonia il Purgatorio racchiudendolo tra due movimenti veloci a loro volta racchiusi da due movimenti lenti.

Quando Ernst Křenek, intorno al 1924, preparò la bella copia dell’Andante-Adagio per l’esecuzione, trovò che anche il Purgatorio era praticamente eseguibile, perché, fra le trenta battute orchestrate da Mahler e le indicazioni d’orchestrazione ricavabili da vari appunti, era possibile metterne in piedi una versione pressoché completa. Di fatto, però, l’unico movimento di cui esisteva una versione eseguibile di pugno dell’autore rimaneva l’Andante-Adagio, ed è infatti l’unico che autorevoli interpreti mahleriani come Boulez, Abbado e Bernstein hanno voluto eseguire, mentre Mitropoulos e Mengelberg hanno voluto includere nelle loro esecuzioni anche il Purgatorio (del Purgatorio di Mitropulos esiste una registrazione live del 1960).

Uno dei miei pezzi di musica preferiti è il concerto per violino di Leoš Janáček intitolato Il pellegrinaggio di un’anima: in realtà un frammento mai completato dall’autore, di cui conosciamo la versione approntata da Miloš Štědroň e Leoš Faltus nel 1988, settant’anni dopo la sua morte. Ma il compito di Štědroň e Faltus non era troppo difficile, perché Janáček aveva riversato quasi tutta la parte orchestrale nell’ouverture dell’opera Da una casa di morti e quella solistica nelle musiche di scena per la commedia Schluck und Jau di Gerart Hauptmann: quindi si trattava sostanzialmente di integrare gli appunti del concerto con quanto era desumibile dagli altri due lavori. Ma parliamo di un concerto di 12-15 minuti. Ben altrimenti improbo era il compito di Cooke, che dovette fare i conti con una sinfonia di quasi un’ora e mezza e col fatto che la vedova di Mahler, Alma, rilasciava a rate gli appunti del marito, sicché il poveretto si trovò a scoprire solo nel 1964, cinque anni dopo aver intrapreso il lavoro, che, oltre al materiale già consultato, c’erano altre 44 pagine inedite da esaminare. Per giunta, il compito di Cooke incontrava parecchie ostilità: Bruno Walter, con la sua autorità di amico di Mahler e suo celebrato interprete, opponeva al completamento dell’opera il suo “Pape Satàn Aleppe”, facendo pressioni su Alma affinché non lo autorizzasse; Alma tentennò parecchio, ma poi pianse ascoltando la prima versione della sinfonia ricostruita e cedette. Poco prima di morire, nel 1962, anche Walter ammise di essere stato troppo severo; ma né lui né Alma riuscirono ad ascoltare la versione finale di Cooke, che poté mettere la parola “fine” al suo immane lavoro solo nel 1976, quando Mahler era morto da 65 anni, Walter da 14 e Alma da 12.

La domanda più importante è: ne è valsa la pena? Sì e no: poter ascoltare la sinfonia ricostruita è un privilegio di cui generazioni di mahleriani non hanno potuto godere, ma è pur vero che detta sinfonia ricostruita presenta un enorme squilibrio tra l’Andante-Adagio, che è di Mahler al 100%, e il resto, che, come scrisse Cooke, è “al 100% di Mahler nella linea melodica, al 90% nell’armonia e ispirato a Mahler nell’orchestrazione”. Di fatto si esce dall’ascolto con l’impressione che Mahler, avesse avuto un’altra estate da vivere, avrebbe sottoposto il tutto a una corposa revisione -o che la sua armonizzazione e orchestrazione avrebbero reso il tutto più potente. Senza offesa per il povero Cooke, ma l’unico momento di un’intensità davvero mahleriana è la transizione dal quarto al quinto movimento, coi colpi del “tamburo completamente coperto”, come indicato da Mahler negli abbozzi, e le tetre scale ascendenti che sempre gli abbozzi di Mahler affidano ai controfagotti: quindi, la parte migliore del lavoro di Cooke è quella scritta da Mahler. Tra uno scrupolosissimo musicologo e un genio, non c’è partita.

Per essere completamente onesti, ci sono altri due momenti toccanti: la parodia in 3/4 del tema del Dies irae nel secondo Scherzo e la prima esposizione del tema del Finale, entrambe affidate al flauto -presumo da Cooke, anche se Quirino Principe lascia il dubbio scrivendo “Il passo a cui Mahler affida la massima intensità emotiva è l’entrata del flauto”: chi ha avuto dunque l’idea di affidarla al flauto, Mahler o Cooke? Giro la domanda a chi ha potuto consultare le edizioni in facsimile dei manoscritti mahleriani.

Riccardo Chailly appartiene alla schiera dei musicisti che amano l’avventura, e difatti si è cimentato con la prima versione della Butterfly di Puccini, con le sinfonie di Schumann nella riorchestrazione di Mahler, e qui lo troviamo alle prese con quella Decima sinfonia ricostruita cui né Bernstein, né tantomeno Walter vollero metter mano; e la illustra per bene, portandoci a spasso per i suoi cinque movimenti con equilibrio e buon gusto, ma senza il suono mahleriano che hanno le sue incisioni con il Concertgebow di Amsterdam. Chiaramente la sua lettura dell’Andante-Adagio non è intensa come quella di Bernstein, né implacabile come quella di Boulez; ma è il lavoro di qualcuno che ama Mahler, ama questa musica e vuole farla andare per il mondo: che è esattamente ciò che ha fatto Cooke. E noi siamo contenti di poter ascoltare almeno questa versione della sinfonia, ma con un ma: che quando l’abbiamo finita, non possiamo fare a meno di rimpiangere quella maledetta estate in più di cui sia noi, sia soprattutto Mahler avremmo avuto bisogno; mentre quando ascoltiamo l’Andante-Adagio da solo, soprattutto se eseguito divinamente come lo eseguiva Bernstein, questo rimpianto non lo abbiamo, o lo abbiamo di meno, perché quello che stiamo sentendo non è tutto, ok, ma è di Mahler.

Si dice che in quel maggio del 1911, poco prima di entrare in coma, Mahler disse “Mozartl”, parola dialettale viennese in cui è adombrato il nome del suo compositore preferito: è l’ultima parola chiara pronunciata da Mahler prima di precipitare in un regno di suoni indistinti e, poi, nel nulla. L’Andante-Adagio, al pari di “Mozartl”, è l’ultima parola musicale che Mahler ha proferito con chiarezza, prima che i suoni che aveva in mente entrassero, insieme con lui, nel nulla.

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