Mahler e Karajan

Karajan è stato un direttore grande e controverso: negli anni della celebrità la sua ricerca del bel suono ha prevalso a volte sulla credibilità esecutiva -l’Adagio di Albinoni, nelle sue mani, è avvolgente come non mai, ma diventa il Largo di Albinoni-; al tempo stesso, rispetto ad altri direttori amanti del colore orchestrale, come il quasi coetaneo Celibidache, ha mantenuto fino alla fine la vitalità ritmica che aveva ammirato, da giovane, in direttori come Strauss e Toscanini. Nelle incisioni in studio, il doppio virtuosismo suo e del tecnico di fiducia Günter Herrmans gli gioca qualche brutto scherzo perché la gamma dinamica è così estesa che o si ascolta in cuffia o molte sfumature risultano inudibili. Personalmente, mi piace il Karajan del periodo inglese (1948-58), ritmicamente vivo, asciutto, dotato di una sorta di britannico understatement, eccezionale in opere come Il flauto magico, Il cavaliere della rosa, Falstaff, ma anche in Sibelius –un Sibelius semplice e luminoso come quello di Ormandy, di Toscanini. Lo stile più sontuoso degli anni successivi lo ha reso secondo me poco attendibile nella musica fino a Beethoven, ma gli ha permesso di darci alcune tra le più belle esecuzioni di Sibelius, il più poetico Don Quixote di Strauss -con Pierre Fournier-, la più poetica Metamorphosen, sempre di Strauss, e alcune meraviglie nel repertorio novecentesco: una superba Quinta di Prokofiev, un eccezionale Apollo di Stravinsky, la più struggente Notte trasfigurata di Schönberg, l’Honegger più sublime.

Se si pensa a Mahler, il suo non è il primo nome che viene, eppure il live del 1982 della Nona sinfonia è, semplicemente, un miracolo. Dopo tanti ascolti, mi sono convinto che per fare una buona Nona di Mahler occorre:

-essere semplici nel primo movimento;

-essere ritmicamente vivi nello Scherzo e nel Rondò-Burleske;

-non cedere al lirismo dell’Adagio.

Karajan queste cose le fa tutte: nel primo movimento mette in risalto le finissime tessiture orchestrali meglio ancora di Walter e, al pari di Walter, si attiene a un aplomb espressivo che “tende la tensione” impedendo qualsiasi sfogo liberatorio; nei movimenti veloci mantiene una ritmica serrata anche negli episodi centrali cantabili, ancora una volta facendo sua la lezione di Walter; nell’Adagio, poi, supera addirittura Walter nella capacità di tenere l’emotività a freno semplicemente dilatando i tempi e mantenendo un controllo assoluto della dinamica, che non esplode mai in fortissimo risolutivi. In questo modo riesce a rendere la tensione insostenibile fino alla fine conservando la continuità del discorso, mentre Walter, nella sua ultima incisione del 1961 -ma non nella prima, del 1938- mostrava un approccio estremamente analitico, che seghettava i diversi episodi rendendoli quasi autonomi l’uno dall’altro, quasi conclusi in se stessi, come in un eterno e sfibrante ricominciare da capo.

Il Karajan dell’estrema maturità, anche per motivi fisici -ha già cominciato a soffrire di problemi alla colonna vertebrale e non può più permettersi il gesto scattante e “a molla” per cui andava rinomato- non è più interessato al virtuosismo e mette la bellezza del suono esclusivamente al servizio della musica: in questa Nona il suono è morbido ma ben teso nei movimenti estremi, mentre in quelli centrali si fa selvaggio e marcato quanto basta per aderire alle intenzioni di Mahler. Un’esecuzione praticamente senza difetti, tanto più encomiabile in quanto si tratta di una registrazione live. Per me la più bella Nona registrata.

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