Gioia di restare è un gesto,
residuo di esistenza bucata.
Siamo inchiodati alla stessa croce,
estasi è separazione.
Vivaldi di notte, un verso di Alejandra
e dopo l’acqua stilla,
evapora, non possiamo berla.
Dire acqua è dire nulla,
non estingue la sete, la parola
rivela un corpo estraneo.
Se io ti vedessi su questa radura
ti chiamerei rivale, e se tu
mi dicessi che non posso
evadere ti chiamerei Io.
Non sempre ci si abbevera
alla sorgente diafana, ma so che
in quelle acque l’Altro sono Io.
Estasi è scissione, ricongiungimento.
L’erba fredda sdrucciolevole su cui
mi spogli: bagnàti i capelli, accarezzàti
i seni, le mani sull’addome. Aspettami,
presto ti confiderò che vivere è morire.
La poesia di Ilaria Palomba, in Microcosmi (Ensemble, 2022) si aggira tra inferno dell’Io ed inferno del mondo. Qualcuno definisce questa poesia confessionale, ma c’è molto di più della confessione nei versi dell’autrice pugliese: c’è amore, misticismo, c’è la musica –lo stesso titolo della raccolta viene dai Mikrokosmos del compositore ungherese Béla Bartók-, c’è un gridare forte tutto l’orrore, ma anche tutta la potenza e la bellezza di questo stare al mondo. Da appassionata di musica, Palomba fraseggia, passa dal piano al forte, dall’esplosione al raccoglimento del suono anche nel breve giro di pochi versi:
Tristano, tu non sai quale sorte
ci attende. Io conosco ogni cosa
e dispero. Le tue mani grandi,
furia nel tuo sguardo. So bene
dove andremo a schiantarci, e
ti fuggo, t’imploro di lasciarmi
prima che sia buio. La notte
ottunde il cammino, indugia la
luna sui nostri lamenti, e nelle
grida festose nascondiamo il
pianto di chi non conosce la via
per tornare. Dispersi cerchiamo
un appiglio nel bosco, tu trovi
soltanto la spada. Benedici
le mie urla. Benedici questa
notte che nudi ci assale.
In questo breve componimento è all’opera tutta la sapienza musicale dell’autrice: non solo è inevitabile, leggendolo, immaginare delle continue variazioni nel tono della voce, ma l’uso dell’enjambement dall’inizio alla fine riproduce la trovata armonica di Wagner nel preludio del Tristano e Isotta, che non arriva mai all’accordo perfetto e produce nell’ascoltatore un ansimare perpetuo che ricorda la gioia e l’angoscia dell’amore. Un amore che, nei passi più esplicitamente autobiografici, si dà come non ricambiato e infelice, ma che si traduce anche in un cammino dell’anima verso la conoscenza, la compiutezza e il perfezionamento, e che si estende alle cose tutte in una visione miracolistica, sacrale, non “laica” della vita: pur se non è legata a nessuna religione, Ilaria, come la sua conterranea Claudia Di Palma, sente la poesia come qualcosa di estremamente vicino alle forme originarie del dire, al canto, al grido, alla preghiera: e dunque la sua visione è sempre sacralizzante. Si avverte l’aspirazione mistica a un ricongiungersi col Tutto che ribalti i tradizionali confini tra vita e morte, e che è figura estrema dell’amore, della fusione amorosa in cui si celebra un rituale di rinascita e morte: “Oggi lasciami salvata dal cemento, / e dopo fammi saldare alla creatura”, scrive l’autrice; oppure “dentro le cose vive / sento le cose morte”.
Naturalmente il misticismo della poeta non è ingenuo, e anzi sembra partire dalla dolorosa constatazione del silenzio di Dio nelle cose: “ Oggi Roma è una preghiera / cui nessun Dio risponde”. Se per Turoldo la poesia era una forma di ascolto del silenzio di Dio, per Ilaria sembra che essa sia la risposta umana, bisognosa e disperata, a questo stesso silenzio. Un silenzio che grava sulle grandi tragedie del tempo –Ilaria allude alla deforestazione, alle migrazioni…- ma anche sulle principali istituzioni dell’umano, prima di tutte la famiglia, nido/nodo che, come nel romanzo di Elisa Ruotolo Quel luogo a me proibito, protegge e al tempo stesso mutila intimamente:
Puoi tornare quanto credi
a piangere tra le mie braccia
e ogni pugnalata che io
t’infliggerò, figlia, sarà per te
fresca aria d’Oriente, e ogni
giudizio, e ogni non detto,
e ogni parola che scardina
il detto, sarà per te acqua
di sorgente. Puoi tornare in
ogni istante, qui, da noi, ti
aiuteremo a non crescere.
Il fatto è che in ogni relazione possibile sotto il sole di questo mondo si annida la malerba del potere, e il potere le sgretola dall’interno. Ogni fantasia di potere è fantasia di stupro, scrive Ilaria, e di fronte a questo cancro del vivere reagisce come un’ossessa, con parole che ricordano il Pasolini di Io sono una forza del passato: “Vago sull’Appia / senza ritrovare / il bandolo, sola, / nel crocicchio, invasa, /agganciata ai muri”. Eppure, il cammino della poeta –mistico e conoscitivo- è destinato a procedere verso la luce, ma una luce poderosa, tagliente, michelangiolesca:
Santa rimbomba la tromba, e per le
strade impazzano i festanti.
Io ti ho scelto, mio amato, mio Semele,
avvinghiami, non sfidarmi, potrei
impiccarla –la bambina che ami-
trafiggerla. Adesso sei il custode.
Custodisci questo scrigno affinché
l’Angelo si manifesti nel fulgore.
davvero potente!
Sia la poeta che la tua recensione!👏👏👏👏👏👏
Grazie, carissima. Ma ho solo descritto quello che ho trovato. La potenza è tutta dalla parte di Ilaria.