Quando ho letto i diari di Montanelli –ormai più di dieci anni fa- li ho trovati privi di vita interiore, aridi. Gli unici tratti dell’uomo che emergevano erano un certo arrivismo frammisto a qualche tendenza depressiva.
Non sono mai riuscito a comprendere appieno la grandezza giornalistica di Montanelli. Non mi sembra si ricordino di lui uno scoop, un’inchiesta –a parte forse quella su Venezia. I pochi reportage che ha scritto, dalla Finlandia, dall’Ungheria o da Tokyo, sono pieni delle sue opinioni più che di fatti. Si insiste sulla sua indipendenza di giudizio, ma nei suoi giudizi ha sempre difeso le istituzioni del suo tempo –il confronto con Pasolini è imbarazzante. Ha coltivato intelligentemente una formula giornalistica che gli consentiva di essere contro il potere ma dentro il potere, libero di muoversi fra personaggi di primissimo piano –anche del mondo di mezzo- facendo il duro ma senza rischiare troppo. Perfino contro le Brigate Rosse altri rischiarono più di lui.
La sua prosa fu elegantissima, è vero, una delle più belle del ventesimo secolo. Ma non fu propriamente nemmeno uno scrittore. Un aforista, forse. Gli mancava la capacità di costruire frasi di passaggio, di far filtrare un po’ d’aria e d’imprevisto in quel suo monologare così controllato.
La mia generazione l’ha amato per il suo litigio con Berlusconi nel 1994; non sapevamo però che, prima del 1994, Montanelli non aveva proferito verbo su come Berlusconi stesse trasformando l’Italia in un parco commerciale privo di tema.
Il suo diario è stato intitolato I conti con me stesso. Forse anche per il Paese è venuto il momento di fare i conti con questo mito -e magari di sfatarlo.
Concordo in pieno.