Claudia Di Palma, “Altissima miseria”

Ti offro la mia bandiera bianca,
ti porto nel luogo stupendo della
mia resa, la scrittura, e spezzo
le parole come pane. Queste
briciole non hanno pietà
dell’indifferenza. Si prendono
spietata cura di tutte le cose.

Con queste parole sferzanti Claudia Di Palma ci accoglie nel suo universo espressivo. È un esordio potentissimo. La poesia come luogo della resa e luogo della più alta realizzazione –non di sé, ma dell’umano. La parola come cura, ma una cura che si attua nell’incandescenza della verità anziché nella dolcezza solo apparentemente protettiva del senso comune. Ho sempre creduto che la forma sia la più solida espressione della pietà umana. Le altre non sono meno importanti, ma durano il tempo di un gesto, al massimo di una vita. La forma invece, concretizzata in un’opera, è un atto di umanità che perdura. E la poesia della giovane Claudia –che è nata nel 1985, ma ha una maturità poetica e umana di cui mi sento allievo- è un atto di umanità che perdura al livello più estremo. Altissima miseria (Musicaos, 2018) non è una raccolta di poesie: è un’offerta, un dono. Claudia sembra condividere con altri poeti del Sud –penso alle dolorose nenie incantatorie di Ilaria Seclì- una concezione della poesia come rito in cui il poeta si annulla e lascia emergere la natura miracolistica del Tutto.

Intanto marciamo
di un bellissimo marcire.
Corrispondiamo al vuoto e al silenzio
con le nostre carni e una certa fame.
È una corrispondenza che ci elude.
È una preghiera che ci smaschera,
ci snuda fino al nulla. La vita è assenza.
Siamo pregni di ciò che ci esclude.
Insieme marciamo
di un bellissimo marcire.

C’è in questa poesia una solennità cerimoniale e al tempo stesso un’intimità profonda. “Sono incinta dell’evento”, scrive Claudia, “spalanco il grembo e gli occhi a ciò che sarà figura”, “condivido la mia fertilità”, “ Questa carne nuda è il principio del mondo se come verbo si pronuncia fra le tue braccia”. Le immagini dell’utero, del seme, della luce, sono calde e familiari, e però sono dotate di un senso di sacralità che le rende remote, inattingibili. Come nel quadro di Chagall intitolato La nascita. C’è lo stesso senso del quotidiano e del sacro, dell’origine e del mistero.

Anche l’amore conserva la sua primitiva forza cerimoniale: è un rito, crudele e altissimo come tutti i riti. Amare è un donarsi, uno svestirsi dell’individualità per ricongiungersi a un’origine e a una fine. La poesia di Claudia è al polo opposto dell’amore esplicito di tanta -pur bellissima- letteratura contemporanea, e fa venire in mente un’altra raccolta di poesie da me molto amata, Corpo di pane di Elisa Ruotolo.

La mia anarchia intima,
segreta, marginale. La mia
periferia nel centro, nel fondo di me.
Ti guardo con le mie case popolari,
i miei popoli scomparsi, con le vie
d’estinzione che mi compongono
e scompongono. Ignoto
è la parola d’ordine, e rischio.
Togliere la proprietà privata
dalle parole, occuparle, accarezzarle
come onde gravitazionali e
stropicciarle, scoperchiarle,
non metterle in nessuna teca
di vetro, in nessuna campana.

Claudia, lo scrive in un’altra poesia, studia l’arabo, e la sua poesia ha in comune con la poesia araba la figura di un Tu che non è mai dato sapere se sia l’Altissimo o la persona amata. Così come sente l’amore -come un’offerta, come uno spossessarsi di sé- così sente anche la parola. Una cerimonia, che come tutte le cerimonie è un atto di messa in comune. Bisogna “togliere la proprietà privata dalle parole”. Di questo atto rivoluzionario, sacro e sacrilego a un tempo –perché separa la parola dal suo legame originario con un parlante- è parte essenziale il lavoro sul suono della parola: la maestria sonora di Claudia è tutt’uno con la grande essenzialità, col pudore del suono di questa poetessa che è anche una musicista, e che scrive parole scavate nel silenzio e che nel silenzio tornano, in punta di piedi. La pagina bianca è come un silenzio da cui si staccano poche voci essenziali, e a cui si torna. Il verso è una questione di vuoti e pieni. Possiamo provare a distendere in prosa alcune composizioni, ed esse assumono un carattere nuovo, sapienziale: il mistero resta, ma depurato da quel dolore umano che solo il canto è in grado di realizzare:

Laddove ci tendiamo le mani ma non ci tocchiamo c’è silenzio attorno oppure il fruscio di voci confuse. C’è un rumore di tenda e vento all’unisono, cantano lo sbattere, il bussare. Lì ci tendiamo, ci veniamo incontro ma non ci tocchiamo. Dobbiamo avere molta indecisione per guardarci negli occhi, per dire eccoci, per ospitare reciproche differenze.

Una sensibilità liminare, uno scrivere da un limite mai varcato, sempre lambito. Una parola che resta “al solido riparo dell’intangibile”, e la poeta come una sacerdotessa che esiste nella mancanza. Una poesia del terrore originario dell’esistenza, di un terrore che coincide con la nascita, che non consola il lettore, ma gli offre la sua abbagliante solidarietà.

di palma 1

3 pensieri riguardo “Claudia Di Palma, “Altissima miseria””

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