“Una minima infelicità”: la rivelazione di Carmen Verde

Una minima infelicità di Carmen Verde è una rivelazione: l’ho letto in poche ore, ma non è questo il punto: i romanzi belli non sono quelli che si leggono in poche ore. È che quelle ore sono state colme. L’autrice ha infuso tanta realtà ai suoi personaggi che poche pagine le sono bastate ad animarli -e poi a sottrarli allo sguardo- e pochi tratti sono stati sufficienti a rendere realissimi gli ambienti. La sua scrittura è tutta nella sottrazione. I frammenti narrativi che allinea contengono ciascuno un piccolo mondo compiuto, come i versi di una poesia riuscita. Hanno l’odore della realtà e la perfezione del mito.

Tutto l’inessenziale è escluso dalla scrittura. Non importa sapere in quale città si svolga la narrazione, non importa di quale malattia sono morti il padre e la madre di Annette. Quello che importa è che sono stati vivi e che sono scomparsi; quello che importa sono i rapporti che hanno intrattenuto fra loro e con la figlia, e lo sguardo con cui quest’ultima li vede. Non è nemmeno importante chi sia la protagonista del libro, se Annette o la madre. Personaggi secondari quasi non ce ne sono: chi figura nel libro ha uno spessore umano, o non figura.

Nelle 156 pagine di Una minima infelicità assistiamo essenzialmente a delle ellissi narrative: le svolte importanti sono tutte eluse e il tempo si riempie solo di particolari significativi, che rivelano intere esistenze. Molto lo spazio vuoto: quello sulla pagina, coi frequenti bianchi tra un frammento e l’altro, e quello delle cose non dette o solo alluse. Come la fotografia di Ghirri, la scrittura di Carmen è un ritaglio perfetto, che però rimanda continuamente al di fuori di sé. L’arte dell’ellissi, quella del dolore e il tema famigliare accomunano l’esordio di Carmen a un altro bellissimo romanzo contemporaneo, Quel luogo a me proibito di Elisa Ruotolo: entrambi preziosi esempi di sapienza linguistica.

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