La parola è un chiodo.
Il verbo che tu incarnavi ti tolse
di mezzo scavandoti piano.
Riconobbi il tuo volto dal vuoto
che vi cresceva rigoglioso al centro.
Da lì tu mi guardavi senza mai
sciogliermi, mi lasciavi ai miei giorni
grossolani, io mi dimenavo
con cose di scarso valore, monili
d’argento, e tu, tutto miseria e vento,
non ti offendevi, dissanguavi in croce.
Con queste parole Claudia Di Palma apre Atti di nascita (Minerva, 2021), mostrando fin dal principio l’origine sacrale della sua visione. Una rovente sacralità informa la vita delle creature fin dalla loro origine, istante benedetto ma anche violento, traumatico.
Un impasto di farina e acqua
lievita nel tuo petto,
scalcia, esplode, poi ti lascia sola.
Ripeti a memoria il rituale delle madri,
l’eterno che ti sventra, il tempo
che cade giù dalle tue viscere
e inizia con un pianto la conta dei respiri.
L’atto a monte della nascita, l’amore, è anch’esso sacro e traumatico. È conoscenza suprema dell’altro, ma anche del limite che l’altro costituisce per noi. È ammissione dell’impossibilità di conoscere l’altro fino in fondo, della sua inaccessibilità.
L’acciarino di una carezza, la pelle affilata,
la fatica di sezionarci le ombre,
il sudore, lo stremo delle forze.
Corpo a corpo facciamo il rituale
e non ci conosciamo mai
e non c’è niente da conoscere.
È il rituale dello straniamento, l’amore.
Tutto ciò che vive, in definitiva, è destinato a una solitudine smisurata.
Il documento è stato redatto bene,
con bella calligrafia.
Il camino attende paziente la consegna
come un impiegato del catasto.
Anch’io, come tutti, sono stata scritta per il fuoco.
Ogni cosa è stata pensata per lui.
I tuoi occhi, incisi nel mio ventre,
sono un buon combustibile,
ma il tuo sguardo resta a lungo, come la fuliggine.
Io, te, ogni altro essere vivente,
siamo i progenitori della cenere,
siamo friabili come carta.
A volte ci amiamo per prepararci all’addio
davanti al camino che attende, paziente.
L’onnipresenza del Sacro non deve far pensare alla poesia di Claudia Di Palma come a una poesia “di un altro mondo”. Se è vero che, per certi aspetti, ella potrebbe ripetere, con Cristina Campo, “due mondi, e io vengo dall’altro”, è ancor più vero che la sacralità di Claudia è di tipo francescano, evangelico, pasoliniano, e vive l’esperienza del Creatore attraverso quella delle sue creature. Ecco com’è fissato, in pochi versi, il ritratto di un migrante annegato:
Quest’acqua feroce è uno specchio del nulla.
Tutto è a galla, tutto è a fondo,
ogni migrante scampato alla guerra
è morto, e vivo nel groviglio delle onde.
Guarda l’azzurro: un enorme panno steso
ad asciugare in eterno, senza scampo.
Il mare fa acqua da tutte le parti,
la bellezza è una goccia,
la bellezza è il colore che non si trova
rovistando il mare.
Ancor più esplicito è il riferimento all’immondizia, a ciò che la civiltà feroce dell’efficienza ha scartato e che per Claudia contiene invece l’immagine più veritiera dell’uomo, e quindi di Lui:
Immergo le mani nel vuoto (primordiale).
Sul fondo le buste piene di grazia,
residui alimentari, fazzoletti
umidi. Il volto dell’uomo è qui raffigurato
a immagine e somiglianza del cielo.
Il buio: tanti piccoli roghi prima dell’alba.
Poi il grande inceneritore.
Divino è tutto ciò che il mondo della compravendita rifiuta, tutto ciò che è marginale e residuale, perfino una pianta parassita. Il senso del sacro di Claudia investe con violenza il mondo, fino a trasformarlo nell’immagine espressionista del suo contrario, in un’antivita più genuina della vita, chiaroscurata da una luce livida e tagliente.
Nelle briciole cerco la tua effigie,
la luce che dappertutto si restituisce
mette radici nel giorno.
Un’erba rampicante, infestante.
Il volto di Dio è visibile in tutto ciò che il senso comune vive come repellente, e la preghiera è un atto eversivo, che va espresso in segreto come una rapina, come se si potesse essere sorpresi da un momento all’altro “con le mani nel sacco” del divino.
Il tuo volto è una chiesa,
un’assemblea di detriti che cantano
la melodia delle mosche.
Ed io con le mani nel sacco, scarto
dopo scarto, sgrano il rosario
e prego.
Nell’intervista che precede i versi, in apertura di libro, Claudia espone con parole ortesiane il suo credo cosmico pieno di umanità, la sua filosofia dello scarto e della differenza. Ma è, ancora, nei versi che trova le parole migliori per dire come lo scandalo del sacrificio di Dio sia rintracciabile solo in ciò che fa scandalo per un’umanità soddisfatta.
Ecco l’altrove. Ecco l’immondo.
Non è una stanza immacolata, ospedaliera.
Non è una tavola imbandita a festa,
il piatto caldo della domenica.
È la mensa per i poveri e i barboni,
un simulacro di pane a macerare sotto il sole,
una lattina, un pezzo di carta.
Quando le cose perdono la loro identità
vengono qui, nel bidone dell’indifferenza.
Porgono l’altra guancia, quella opaca, dismessa,
e ci perdonano.
Per questo spreco, per tutta questa luce.
Per ogni mano che mendica l’inferno.
È qui, ai margini del cielo, sull’asfalto bollente,
l’altrove. È un sacchetto per la spazzatura,
dove le cose stanno vicine, strette
in un abbraccio, per non finire.
Quella di Claudia è poesia raffinatissima e scarna, ma così impregnata del senso delle origini, così selvaggiamente vicina alle cose prime che ci ricorda come la poesia, di tutte le forme d’espressione verbali, sia la più vicina al canto, al grido, all’esclamazione. Alla preghiera -che non è la preghiera “facile” e distratta di un’umanità consumista, ma quella dell’uomo primitivo, totalmente smarrito di fronte alla spaventosa venustà del mondo.