Mi ero proposto di concludere con qualcosa di più impersonale, ma preferisco riportare le parole che ho scritto oggi all’autrice, a lettura ultimata.
“Cara Veronica, ho finito il tuo romanzo, e mi dispiace averlo finito perché mi ci ero affezionato. In un passo dici: io so di saper vivere. Sì, questo è il romanzo di qualcuno che sa vivere, malgrado l’ansia, gli psicofarmaci, la psicosi. È il romanzo di una creatura viva che, come tutte le creature vive, non teme le epifanie della morte. Nelle ultime pagine non prevalgono la storia d’amore né la grande disillusione del popolo polacco. Prevale il destino, quel qualcosa che è già scritto in tutte le creature viventi -cani compresi – che è ineluttabile e che tuttavia è qualcosa e non il nulla. Mi viene in mente il sentimento russo della toska. Ne parla tanto Blok nei suoi taccuini. La toska è una specie di ennui cosmico, è più della noia e della depressione, ma è il momento in cui più si percepisce la vastità e la forza ancorché l’inermità del nostro stare al mondo. Da qualche parte ho scritto che la vita è marcia, ha un cuore malato, ma una periferia stupenda: ed è così stupenda quella periferia che vogliamo gustarla tutta, anche a costo di toccare prima o poi il suo midollo di orrore. Ecco, il tuo romanzo mi ha fatto pensare a questa e a tante altre cose. Ti sono grato. È un’opera che fa bene proprio perché non fa sconti.”
Veronica non ha concesso alla sua protagonista -evidentemente autobiografica- una sola attenuante: ha una famiglia affettuosa, non sembra aver subito traumi, nulla: non c’è giustificazione né al suo splendore né alla sua follia. In questo tempo di gente che cerca alibi, mi pare il massimo. E questo romanzo privo di consolazioni aumenta la vitalità di chi lo legge come solo ai migliori libri è dato fare.