Stavolta parlo di Vodka siberiana, il libro che Veronica Tomassini ha autopubblicato e che è disponibile solo ordinandolo da lei medesima, che lo custodisce come un oggetto sacro, da distribuire solo a chi lo cerca e lo vuole profondamente.
Questo è il libro della santità di Veronica, che si è accollata il male di un trapasso stoico e lo ha vissuto nella sua carne. Non a caso uno dei personaggi -nota bene: il personaggio di una religiosa- la chiama “la santa”. Veronica guarda a se stessa giovane senza pietà, ma con infinita sorellanza nel dolore. Offre se stessa al lettore in un atto sacrale, un olocausto di parole. Ripensa il mondo di Sangue di cane col disincanto della maturità. Rilegge la giovane che è stata. “Non perdonatemi”, dice. E in questa richiesta è tutta la sua inflessibile tragedia.
Il suo stile è solenne, sebbene abbia il tono colloquiale di una confessione. Vodka siberiana non è propriamente un romanzo: è un poema, scritto in versetti, e la qualità dello stile ricorda Primo Levi ma anche l’elementare maestà delle Sacre Scritture. Nel rivolgersi a se stessa giovane, la scrittrice trova parole crude e splendide: “…hai vissuto con questo baratro cementificato che ha investito il tuo inutile corpo da sempre; vesti la mestizia sovrumana, un lutto dai contorni elefantiaci e non sai nemmeno di chi sia. E lo vesti tu.” Descrizione di un malessere radicato e nativo, un male originario da cui si può trovare redenzione solo sprofondando.
Libro pieno anche di saggezza questo, di massime di una saggezza lancinante, bordate di saggezza che vengono da un’estrema disillusione, la saggezza possibile solo a chi ha tanto sbagliato. Veronica è forse l’unica vera pasoliniana d’oggi, l’unica che abbia incarnato la brutalità del vivere nella spiritualità dei corpi.
In Vodka siberiana, diversamente che in Sangue di cane, il racconto della storia d’amore non è il filone principale. Il disincanto del tempo prevale. La storia d’amore, vista in prospettiva, è stata qualcosa di violento come un’allucinazione. I residui d’illusione che c’erano nel romanzo d’esordio, qui sono spazzati via dalla brutalità dei fatti. La narratrice non è più sola di fronte a un uomo che è un abisso, ma di fronte a un’intera comunità -lei la chiama: torma- di uomini-abisso, di esseri che la storia ha privato di se stessi e che sono per questo pericolosi. Il Limonov di Carrère le fa da guida in un viaggio alla ricerca di una comprensione storica che è un tentativo, se non di comprensione di sé, almeno di ricostruzione del tracciato del sé. Tra la Veronica di un tempo, coi suoi quarantotto chili di innocenza, e quella di oggi, col viso smunto solcato da tutte le amarezze del mondo, sembra passare la stessa grande disillusione che la Storia ha riservato alle generazioni degli abitanti dell’Est. L’immagine più patetica di questo inganno epocale è forse quella del siberiano che urla “Cekisti!” a un capannello di russi in attesa di rimpatrio: russi che hanno poco più di vent’anni, e dunque della Ceka non conservano nemmeno il ricordo.
All’inutilità dell’ideologia che lasciò milioni di disperati al suo crollo, l’autrice dedica parole di una desolata forza icastica:
Il loro eroismo sprecato diventava oscenità in un parco, era il tronco di un uomo che ondeggiava su un cespuglio maneggiando con la propria virilità, era l’ubriaco che urinava dal proprio palco, il proscenio del poeta incontinente che inveisce le ragioni della forzatura miserabile dei carri armati nella piazza di Vilnius, era la contraddizione belligerante in Cecenia, la sponda della Crimea, era Gorbacev, gli antidemocratici, nomi che risuonavano tondi e vuoti nel tempo nuovo, la libertà non li riconosceva, libertà si intende decorata di parecchie condizioni, la libertà per intero non la chiamavano democrazia; dare un nome ai fatti significava per molti di loro rivendicare un astio che montava montava per finire con una sbronza. L’astio ribolliva dentro rivendicazioni confuse e molteplici, si odiava per necessità, per sguainare simbolicamente la spada del proprio orgoglio che si chiamava – quello sì – nazione, salvo trasformarsi nell’estrema ortodossia.
L’unico amore possibile a queste condizioni è “l’amore sovrumano”, un amore nonostante, l’amore nella consapevolezza della fine dall’amore. Un amore vicino al tocco estremo della Grazia.
scrittrice che ignoravo.
Ho letto questo tuo post emozionato ed emozionante. Una folgorazione.
Devo assolutamente leggerla…
L’ho conosciuta da poco e ne sono entusiasta.
immagino! Ho trovato il suo blog su Wp… la seguo.
L’unica cosa che mi disturba è il suo blog su Il fatto quotidiano… ma… nessuno è perfetto! 😉