In un articolo pubblicato su “Limina”, Paolo Di Paolo ha posto sette domande ai molti che hanno recensito, in toni non entusiastici, l’ultimo film di Nanni Moretti, Il sol dell’avvenire. Da spettatore entusiasta –e autore di un articolo sul film, uscito su “Morel, voci dall’isola”- ho provato a rispondere.
1. Hai fatto caso al momento in cui Ennio, dirigente del Partito comunista italiano (Silvio Orlando), attende ansioso, preoccupato, che si accendano le luci nel quartiere Quarticciolo, segno dell’arrivo della luce elettrica? Prova a sostare in quell’attesa, a leggerla, a comprenderla.
Mi ha molto colpito quel momento, proprio all’inizio del film. Non siamo abituati a pensare all’arrivo della luce elettrica, per giunta a Roma, come a un evento collocabile nel 1956. Ho pensato alla semplicità in cui vivevano quelle persone, a come per loro fosse un evento qualcosa che noi diamo per scontato. Mi è rimasta impressa anche la scena in cui tutti vanno nell’unica casa in cui c’è un televisore a vedere le notizie sull’invasione di Budapest. E sono stato grato a Moretti per la sensibilità con cui ha colto questi dettagli.
2. Hai fatto caso al momento in cui Ennio interroga i nuovi iscritti al Partito? Alla sua faccia, alle loro facce? Le parole vengono da questionari veri pubblicati su “Vie Nuove”. Non è strano che non ti si spezzi un po’ il cuore?
Ho fatto caso, più che ai volti, proprio alle domande. Alcune toccanti, altre paternalistiche: in ogni caso rivelatrici di un bisogno di integrità che si è sicuramente perduto dopo la “scomparsa delle lucciole”.
3. Hai fatto caso al modo in cui Ennio, quasi correndo, raggiunge lo spiazzo in cui è installato il circo ungherese Budavari, i cui artisti hanno deciso di incrociare le braccia per protesta contro l’invasione sovietica dell’Ungheria? Non si smuove nulla in te? È un vero peccato.
Ho fatto caso a come, per un dirigente di partito e per un intero quartiere, lo stop di un circo sia un fatto importante, che richiede una battuta d’arresto nelle attività quotidiane. Oggi una cosa del genere sarebbe impensabile.
4. Hai fatto caso al momento in cui il regista Giovanni, sognando di fare un film pieno di canzoni su una storia d’amore lunga mezzo secolo, dà le battute a una ragazza (Blu Yoshimi) che discute col suo fidanzato? Potrebbero metterti in discussione più di quanto tu sia disposto a credere. Ti va di provare a non essere quello che dice scemenze su La dolce vita?
Tenerissime quelle scene. Molte volte vorrei tornare indietro a dare le battute al me stesso di qualche tempo fa -e ho quasi trent’anni meno di Moretti. Ma temo di aver detto molte scemenze e di continuare a dirle, anche se forse non su La dolce vita.
5. Hai fatto caso alla scena in cui il regista Giovanni, quasi arreso ai problemi del film che sta girando, palleggia solitario al tramonto nei pressi delle scenografie? Mi pare che possa bastare pensare a quella per tacere a lungo e fare i conti con la propria intera vita. Con il senso delle cose che proviamo a fare, con il senso di ciò che proviamo a essere. In subordine, non ti pare che dica anche quanto si è soli pur stando fra gli altri?
In realtà ho invidiato a Moretti quella solitudine in mezzo agli altri, perché penso che molte solitudini oggi siano totali, senza sbocchi.
6. Hai fatto caso a tutto ciò che non è la tirata sui sabot, il gelato, la lunga scena-lezione sulla violenza al cinema, la scena su Netflix? Hai dato qualche possibilità ai dettagli? Alzate di sopracciglia, silenzi, sorrisi?
Spero di sì.
7. Ti è venuto in mente che la sfilata finale, anziché derubricarla come felliniana, nostalgica, testamentaria, auto-celebrativa o boh, sia anche un modo di dire una parola impegnativa e necessaria come “grazie”?
Io la ho vista come un momento liberatorio, mi ha sorpreso e commosso, e ho pensato che per Moretti sia stato un modo per esprimere una gioia di vivere che di solito non gli è attribuita e che però gli appartiene, malgrado tutto.