Marthia Carrozzo e Claudio Fabi: il corpo e il rito

Sia Marthia Carrozzo che Claudio Fabi sono artisti del suono. Fabi è musicista e produttore discografico, oltre ad essere padre del famoso cantautore Niccolò; Marthia scrive poesie e le interpreta, con la sua voce cantilenante e ammaliante, con una recitazione spesso convulsa, quasi sempre ieratica e statuaria, per usare le parole di Fabi.

Di bellezza non si pecca, eppure… (Kuromuny, 2022) raccoglie cinque poesie di Marthia Carrozzo incentrate sulla figura di Idrusa, e un lungo dialogo tra la poetessa e il musicista. Idrusa la conosciamo per essere l’eroina del romanzo di Maria Corti L’ora di tutti, ambientato ad Otranto durante l’assedio turco del 1480. È un’eroina antica con una psicologia moderna: bellissima, sensuale, spasimante di vita e desiderosa di morte. Marthia ne reinterpreta la figura in cinque poemetti che spiccano per il loro ritmo convulso e incantatorio. Le sue poesie hanno una musica interna caratterizzata da un uso estenuante e accorto di figure come l’allitterazione e l’iterazione. Le dispiega con sapienza e parsimonia, creando un effetto barocco e avvolgente, stregante. È interessante accostare questa poesia a quella di Ilaria Seclì. Entrambe le autrici sono salentine, entrambe si muovono al limite del processo di significazione, laddove esso si confonde con la pura phoné. Ma Ilaria è completamente spirituale e fa rientrare il corpo nella sua altissima spiritualità; Marthia parte dal corpo e canta piuttosto la spiritualità dei corpi.

Tutto il suo lavoro poetico, ed anche il dialogo con Fabi, fa perno attorno alla rivalutazione artistica del corpo: del corpo che non reagisce solo primariamente alle emozioni musicali e poetiche, ma ne è la scaturigine e il medium. Si dice che la più antica forma d’arte sia stata la danza, e che le altre le siano nate attorno. La danza scaturisce dal corpo. La musica e la parola scaturiscono anch’esse dal corpo, in particolare dagli organi fonatori. In questo senso, il viaggio di Carrozzo e Fabi è un viaggio alle origine dell’espressione, alle radici più profonde dell’urgenza espressiva umana. Le due forme d’arte che dialogano nelle persone dei due autori hanno in comune, come elementi costitutivi, il suono e il ritmo. Ma la loro fusione non si traduce quasi mai -almeno nelle sue espressioni più riuscite- in una consonanza di suono e ritmo, ma nella generazione di un terzo suono, di un terzo ritmo, qualcosa che è altro rispetto alla somma delle sue componenti originarie. Così come il dialogo, che non è somma di due monologhi, ma una terza cosa -data dall’integrazione profonda di due concezioni, due visioni del mondo e anche due esperienze generazionali. Marthia e Claudio non hanno la stessa età. Lui nasce nel mondo della musica classica, ma poi è portato dalla sua appartenenza generazionale, dal trovarsi in America nel momento in cui l’industria culturale americana sta affermando la propria egemonia, ad occuparsi del rock e del pop. Marthia nasce quando il rock e il pop hanno già egemonizzato la scena musicale, soppiantando e sradicando le forme musicali preindustriali. Si può essere critici verso la mescidazione -e in certi casi il meretricio- tra espressione artistica e industria che è all’origine del rock e del pop. Chi scrive lo è, fortemente. Ma non si rimane indifferenti rispetto alla consapevolezza estetica ed etica con cui Claudio Fabi vi si è accostato. Incalzato dalle domande della poetessa, il musicista ripercorre il proprio percorso esistenziale e storico nella sua integrità. Il corpo diventa così non un pretesto, ma una nuova scaturigine di senso. E Marthia apparentemente ascolta, si fa microfono della voce del più anziano e ammirato artista: in realtà ci fa ascoltare la sua voce, una voce di febbrile compostezza, mentre porta alla luce quella cosa inesplorata che è la sacralità dei corpi, il loro essere riti.

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