Io non riesco a lasciare questo
spazio vuoto perché non sento
la differenza tra io e tu e non so
cosa sia io e cosa mondo. Io
non riesco a dire io senza frangere
ai bordi delle cose in granuli
di polvere bistranti caligine aurea
o nera lisa – cenere di
carcame. Io finisco per dirmi
soltanto di esistere. Ricordami.
Ilaria Palomba è maestra nel descrivere le crisi della presenza: quelle situazioni in cui l’io si sgretola, ci si guarda attraverso lo sguardo altrui, si è solo nello sguardo altrui, e tutto di noi e del mondo sembra fuori controllo. È una totale perdita della nostra signoria sul nostro universo. Ernesto de Martino ha teorizzato le crisi della presenza nell’orizzonte mitico collettivo, Ilaria le poetizza nell’orizzonte individuale della quotidianità.
Scrive la stessa autrice in Vuoto, suo capolavoro in prosa: “Alcuni dicono che il riconoscimento sociale non è importante, che le cose importanti sono altre. È un’ipocrisia. Quando stai male non ti riconosci più; allora ti cerchi nello sguardo degli altri, e se questo sguardo è feroce o indifferente non puoi più trovarti, ti dissolvi”.
L’arte di dire io con onestà è una delle più difficili al mondo. Ilaria la padroneggia, e traduce se stessa in forma. La forma è l’atto più durevole della pietà umana. Gli altri non sono meno importanti, ma durano il tempo di un gesto, al massimo di una vita. La forma invece, concretizzata in un’opera, è un atto di umanità che perdura.
Ma va da sé che la vera poesia, la vera letteratura sono molto più di questo. Enormi sono le implicazioni filosofiche di una poesia come questa. È la stessa Palomba, esegeta -non so quanto inconsapevole- di se stessa, a riguardarle, ancora nelle pagine di Vuoto: “Per me è sempre stato una malattia, un disturbo caratterizzato da sentimenti perenni di vuoto, recita il diessemmequinto nel descrivere il disturbo borderline di personalità. Per la mia generazione vuoto è il futuro, il senso mancante nelle azioni, il fatto che stiamo tutti aspettando la fine di una catastrofe che però non si vede -erroneamente detta crisi- ma non è una crisi -una crisi prevede uno scatto, un ricominciamento. Una persona in crisi ha l’opportunità di vedere i guasti della propria vita e cambiare, una società in crisi può comprendere la causa del suo sprofondarsi, ma qui nessuno ha realmente intenzione di ripartire. Abbiamo trasformato l’umano in ordigno meccanico, la tecnica in magia. Non è una crisi, è un cambiamento di specie. Il vuoto è il fallimento del modello di vita occidentale ma, mutando il segno, il vuoto è Dio, l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo -astronomia e fisica dei quanti, teoria delle stringhe, teoria dei mondi paralleli- il codice che tutto sottende. Questo vuoto -questa mancanza- non può essere colmato, né con le droghe né con la violenza né con il sesso, questo vuoto può solo essere accolto in silenzio, e amato”.
Ci sono creature che incarnano il dramma o la fine di un’epoca. Ilaria è una di queste, e in quanto tale ha in sé qualcosa di sacro -qualcosa per cui va accolta con attenzione e amore. Le verità contenute nella sua opera toccano il midollo d’orrore della vita, ma la loro espressione rende l’universo pieno di senso, e il nostro stare al mondo meno spaventoso e solitario.