Il grande inganno del mondo

Con una lingua aspra e florida -frutto di una potente animalità letteraria su cui si innesta il lavoro arduo del cesello- Veronica scrive con L’inganno la sua lastra tombale. Non solo perché un suggerimento per la propria lastra tombale compare davvero, verso l’inizio del romanzo, ma perché un clima di totale cupezza domina queste pagine, un dolore così oscuro, un disincanto così assouto che solo una grande forza d’animo può sopportarlo. Veronica non solo lo sopporta, ma lo incarna: incarna il male radicale che la nostra epoca si porta dentro e lo riesce a scrivere senza sconti perché senza sconti lo vive. Il tempo immoto entro cui si sdipana la trama -minima- del romanzo è dilatato fino all’inverosimile, i pensieri sono un martellìo ossessivo come in un libro di Bernhard, ma la scrittura di Veronica è dissimile da quella di Bernhard: non ne ha il carattere ricorsivo. Piuttosto, è assimilabile alle durezze nebulose della Ortese o al rigoglio verbale di Savinio, messi perlò al servizio di un nichilismo più crudo ed estremo, di una religiosità che non riscatta la sofferenza, e piuttosto la illumina di una luce che la rende ancor più dura.

In tutte le opere di Veronica ci sono dei libri nel libro: in questo caso, per esempio, trovo Goethe: sono come dei testi sacri, delle guide spirituali che Veronica assume per essere confortata nel suo viaggio e al tempo stesso per conservare e accrescere la lucidità. In Vodka siberiana trovavamo Carrère ed Erofeev, nelle Storie dal Tempio c’erano Pitré e Safran Foer. Veronica fa dei suoi testi di riferimento altrettanti testi sacri, che la guidano nel suo sprofondare dentro l’umano per risalirne senza nuove certezze né trasfigurazioni, ma solo con una conoscenza dell’abisso che non può non consumarla. Profondamente cristiana, quasi figura critica essa stessa, Veronica assume ancora una volta il mondo su di sé, ma definitivamente senza speranza di redenzione -senza la portata epica e storica di altre sue opere. Qui poco è affidato all’esile trama e tutto è nella lingua, una lingua che “regge e governa” il libro e l’autrice stessa come un austero e desolatissimo angelo custode.

Di cosa “parla” il romanzo? Di un incontro mancato. L’azione è quasi assente. Più presente è l’assenza. L’amore vissuto in assenza, vagheggiato e mai realizzato, l’amore che è solo un sogno d’amore e mai amore di un corpo, che non è neppure, come direbbe Lacan, amore di un nome -questo amore senza oggetto è uno dei grandi drammi del nostro tempo incorporeo, allenato al virtuale. Su un amore così è costruito il romanzo di Veronica Tomassini: ed è sorprendente l’incontro tra un tema così contemporaneo e un’autrice il cui mondo espressivo è tanto arcaico. Veronica, come Pavese, potrebbe scrivere “Per me deve ancora venire la rivoluzione francese”. Di attuale in senso rappresentativo, mimetico, nel romanzo c’è poco. È lo spirito che non può che appartenere ai nostri tempi.

Al centro dell’opera troviamo la scena di un tè con alcune signore anziane. Nel leggerla, ci accorgiamo che quei personaggi sono già morti. La protagonista interloquisce con loro in un linguaggio manieristico, che arieggia -in versione minimalista- alla parlata del Doktor Faustus manniano. È sintomatico il fatto che questa scena sia collocata esattamente al centro del romanzo: ne contiene in nuce tutto l’universo. È una rappresentazione della morte, e ci dice che la morte è la vera protagonista di questo romanzo condotto come un poema, così come lo sono la sottrazione e la scomparsa, e quel linguaggio così acceso e manieristico, intriso di senso delle ceneri.

L’inganno di cui Veronica Tomassini scrive -e lo dice lei stessa, esplicitamente- è quello dei sentimenti, in particolare dell’amore: il grande inganno degli affetti. L’amore atteso, quello incorporeo e mai vissuto, è per un musicista di Tolone che, in tutto l’arco del romanzo, si limita a mandare una mail. Ma l’amore vero di Veronica -anch’esso non ricambiato e non vissuto, ma più reale- è per il violinista slavo che suona Paganini in piazza Duomo. Un uomo, identificato prima come “l’ubriaco kafkiano” e poi col suo vero nome, che parla pochissimo, eppure ha un corpo e una voce. È uno dei tanti emarginati dell’universo espressivo di Veronica. Con lui, la scrittrice può abbandonarsi alla struggenza laconica dei suoi tipici dialoghi con un Altro semiassente. In lui, nella sua nullità per il mondo, può vedere un riflesso di Cristo. Fin dai tempi di Sangue di cane l’amore per Veronica Tomassini è stato amore per persone così, che sono nulla al mondo, che sono riflesso di Cristo. Riflessi, tuttavia, transitori, spesso ingannevoli, perché l’unico vero amore di Veronica è proprio Lui, Lui però nel suo incarnarsi terreno, che non è mai assoluto e non appaga il suo bisogno d’assoluto. L’inganno, dunque, è tutto, poiché tutto non è che apparenza e accidente: l’unica vera Sostanza è inattingibile. Di qui la disperazione che Veronica sa attraversare con maestria.

l'inganno

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