Dante non è un film su Dante. Usciti dalla sala, sul grande poeta sappiamo meno di prima. Potremmo considerarlo un film su Boccaccio che va alla cerca degli ultimi testimoni della vita del maestro, ma non sarebbe giusto neanche questo. Di Boccaccio, nel film, apprendiamo solo ch’è molto malato. Forse allora è un film sul Medioevo. In effetti, Pupi Avati e la sua troupe sono stati accuratissimi nella scelta dei luoghi e attentissimi alla verosimiglianza di arredi e vestimenti. Ci si sarebbe aspettati qualche attenzione in più anche da un punto di vista linguistico. Non dico che i personaggi del film dovessero parlare come quelli de L’Armata Brancaleone, ma perlomeno si poteva non attribuire a fiorentini ed emiliani l’accento neutro di Castellitto o quello luinese di Eliana Miglio. E, a proposito della recitazione “parlata” degli attori, ho un altro appunto da fare: sia Castellitto che gli altri sono dei sussurratori. Ma il parlar sussurrato è una conquista dell’età del microfono: prima, quando non esistevano sistemi di amplificazione della voce, si parlava in modo più stentoreo e staccato, anche nelle conversazioni private. Ed è un “prima” piuttosto recente. Vi ricordate -almeno quelli della mia generazione- quando i nostri nonni ci chiedevano di parlare più chiaro, più lentamente o a voce più alta?
Il bello del film è di essere più che altro un sogno. Chi è Dante, secondo Pupi Avati? “Uno che sapeva tutti i nomi delle stelle”, è la risposta che emerge. Le scene più esplicitamente oniriche sono anche le più poetiche. Per il resto, il film si avvale di una tecnica narrativa che evita la messinscena diretta dell’azione: tutto ciò che accade viene riferito a voce dai personaggi, mai mostrato sullo schermo. Praticamente, un film di ellissi narrative. Cosa “c’è”, allora, in questo film di cui è più facile parlare per negazioni? C’è una serie di pannelli visivi -e in minima parte narrativi- su alcuni episodi della vita di Dante, dal carattere vagamente giottesco, realistici ma immersi in un’atmosfera trasognata. E in questo riconosciamo la mano maestra di Avati.
vabbè, io, come ho già detto, non vado al cinema da quasi trent’anni…
ma leggerti è quasi come andarci!