Ilaria Seclì non canta il cosmo, è il cosmo che canta in lei. Lei risuona di mondo. Lo avvertiamo con chiarezza in queste due poesie datate 2013.
Se la profondità non ha letto per l’acqua
resta richiamo d’inferno e pietre
occhi di bambino prestati a voglie adulte
il gioco è strada secca coi morti che arrivano
e uomini in ray-ban acconciati di nero
mentre il sensale comanda di aspettare il feretro
e campane segnano le ore dell’antistoria
disappartenute al mondo e infuocate panchine
tracciano i fatti del reale
con occhi e bocche protesi all’ estranea
portata da mondi sconosciuti a interrogare
la poca misura d’acqua tra il mare e il male.
In questo primo componimento si coglie un riflesso pasoliniano: l’antistoria di Ilaria Seclì ricorda il Dopostoria del friulano. Ma altro, forse, e più profondo è il vincolo fra i due poeti: è nella solarità da cui emergono visioni di morte, e nella scelta di fare poesia civile con un dettato misterioso e barocco, di forte impatto visivo. La dimensione esistenziale e pratica della precarietà, l’esperienza dello sradicamento accomunano i viventi in un’epoca in cui i legami sono laschi e le radici affondano poco oltre la superficie. La profondità, l’acqua, la poca misura che separa il mare dal male suggeriscono il dramma delle migrazioni -non dimentichiamo che il 2013 fu l’anno di un tragico naufragio nel canale di Lampedusa- mentre i Ray-ban sfoggiati a una cerimonia funebre ispirano un senso di disagio: l’ostentazione del benessere, la fierezza esibita del reddito turbano lo sguardo di chi non può e non vuole condividere quella condizione. Ma l’esattezza formale della composizione supera la rabbia e lo sdegno: è come se il mondo si autodenunciasse, in questi versi, senza passare per l’esperienza soggettiva del poeta; come se la scrittura si scrivesse da sola, per decantazione dell’essenza del reale sopra la pagina bianca.
L’abilità a riprendersi gli effetti personali
svuotare case e poi riempirle, varcare soglie
entrare e uscire dall’uscio, uscire/entrare
portare i minimi resti di una storia e certi odori,
incensi, candele, l’angelo di Laura. Altri,
stranieri, cuciono trame di disagi nuovi.
È vero, non ci sono più le mezze stagioni
le chiavi seguono mappe di desideri morti
infilano toppe per meccaniche sopravvivenze
resta la parola ripudiata dai vocabolari
ora postuma nella panchina del giorno
data in eccesso e sconosciuta ai calendari.
Questi versi sono accomunati ai precedenti dall’insistere -in una tensione funebremente manieristica- su una visione sradicata. Stavolta l’attenzione è rivolta più alle parole che alle immagini: ”non ci sono più mezze stagioni” è un luogo comune inabitabile per chi a una “vita comune” non ha accesso né diritto. “Altri, stranieri” sono coloro che ancora portano un senso nel discorso. Ma la parola moderna si caratterizza come una post-parola, che nella liquidità del suo fluire ingloba anche il luogo comune come quegli insetti che avvolgono nella loro resina il nemico. La parola che s’incarna nel verso è intemporale, è un eccesso, un’escrescenza dell’essere, che nasce già fossile, per consegnarsi a generazioni che forse nemmeno verranno.
Due poesie nate da un profondo “sentimento del tempo”, e in cui il mondo pare depositarsi sulla pagina come su di una lastra fotografica, pura traccia sul corpo sensitivo del poeta.