A tre anni dall’uscita, ho visto questo film che all’epoca ha fatto discutere. L’ho visto con una certa riluttanza, perché l’idea che si potesse fare una commedia su Mussolini mi turbava. Ma presto mi sono accorto che non è una commedia su Mussolini, bensì sulle tentazioni fasciste degli italiani. E qui sorge un primo problema: forse nel 2018, sotto il governo “gialloverde”, queste tentazioni facevano ancora ridere. Oggi non più. Il tempo ha fatto registrare un cambiamento veloce: se ventisette anni fa, per legittimarsi, Fini doveva fare il congresso di Fiuggi; se quindici anni fa lo stesso doveva spazzare via gli ultimi equivoci sul suo passato dichiarando che il fascismo era stato “un male assoluto”, oggi i politici che non condivisero quelle scelte vanno al governo esibendo la fiamma tricolore che Fini aveva tolto. Quindi, se nel 2018 il film poteva fare un certo effetto, oggi ne fa un altro.
Ma non c’è solo questo. Nella pellicola, tutti pensano che Mussolini sia un comico che interpreta la parte di Mussolini. Gli affidano un programma di satira in cui il Duce dà libero sfogo a uno humor nero razzista, e gli italiani ne ridono. Ma ridono perché pensano che sia un comico. Da quello humor razzista non discende alcun atto concreto, nessuno va a dare fuoco a un immigrato. Gli italiani intervistati fanno dichiarazioni qualunquiste, qualcuno aspira a una dittatura -purché “non sia troppo dittatura”- e tutti ostentano idee xenofobe, ma l’unico vero fascista, l’unico che conosca a memoria i discorsi di Mussolini, ha un genero di colore. Gli italiani sembrano accettare tranquillamente la presenza di gay e lesbiche tra loro, e gay e lesbiche non si nascondono. Magari la realtà fosse così!
Nell’incontro fra il Duce e un gruppo di neofascisti, questi sono tranquillamente dediti a chiedere permessi per fare tavolini e cortei: sono del tutto innocui, e non riconoscono in colui che hanno davanti il vero Mussolini. Credono sia uno che li prende in giro, e lo invitano gentilmente ad andarsene.
Gli unici che, verso la fine, si rendono conto della realtà sono una sopravvissuta ebrea e l’ingenuo protagonista. Solo loro cercano di avvertire gli altri di cosa sta succedendo, ma non vengono creduti.
Dal film, si esce con sensazioni schizofreniche. Da una parte abbiamo assistito a uno spettacolo feroce sul “fascismo eterno” degli italiani, dall’altra quel fascismo si è tradotto in burla.
A complicare le cose c’è il fatto che, per metà della narrazione, Mussolini è un personaggio simpatico. Dà consigli su come conquistare le donne, fa il galante, scherza, si commuove vedendo un ritratto di Claretta Petacci. C’è perfino un po’ di saggezza in ciò che dice: da bravo uomo dell’Ottocento, è inorridito dalla nostra realtà virtuale e dalla nostra TV spazzatura. Fino alla rivelazione finale, non è lui il personaggio peggiore della storia: gli squali televisivi che lo sfruttano ci fanno più ribrezzo: una sensazione aggravata dal fatto che Massimo Popolizio è l’unico che sappia recitare: per cui abbiamo l’impressione che il suo Duce sia in fondo l’unico personaggio dotato di profondità e spessore, mentre gli altri sono espressivi quanto una macchinetta.
Autori e interpreti non volevano fare un film ambiguo. La loro buona fede è palmare; ma hanno realizzato un prodotto molto strano, che tratta il Duce prima come un simpatico buffone, poi come l’unica cosa seria in un mondo ridicolo.
C’è un aspetto pregevole della pellicola di Luca Miniero, ed è che gli sceneggiatori mostrano di avere chiara la differenza fra il fascismo storico, figlio di certe aberrazioni del pensiero ottocentesco, e il neofascismo attuale, un tumore del consumismo agganciato ad aspetti deteriori della mentalità italiana -come il qualunquismo. Ma allora si poteva andare più a fondo e mettere in discussione anche il familismo amorale, il cattolicesimo ipocrita ed altri aspetti del nostro malcostume, che la pellicola nemmeno sfiora. Ci voleva, insomma, un po’ più coraggio, e, nel motto oggi ritornante “Dio, patria e famiglia”, affrontare non solo il secondo, ma anche gli altri due termini. Fare un film come questo ne richiedeva, di coraggio, e ne richiedeva anche portarlo avanti; ma gli sceneggiatori si sono fermati al coraggio di farlo. E la via dell’inferno è lastricata di buone intenzioni.