“Mazzarrona”: la natura e il tempo

Il mare, in Mazzarrona di Veronica Tomassini, è importante come la collina per Pavese.

“Il vento che arrivava dal mare doveva purificare quel luogo immondo dove non germinavano nuove piantine, in una terra dura e bugiarda.”

“La luce poggiava sulle nostre tenere spalle, su quelle di Mary. Il mare dietro le agavi era placido. La nostra consolazione era il mare. Sì, il mare induceva a pensare, a stare calmi, a sopportare, rabbrividendo di gioie sconosciute ad altri, con la vitalità dei fiori carnosi, i fiori del deserto che non muoiono mai.”

“Certe mattine il mare a Mazzarrona era opaco per la caligine che proveniva dai fumi delle fabbriche. Scendevamo giù fino alla baia anche di inverno, quando la rena era fredda e grumosa. Scoprivamo coppie di amanti che sceglievano quella intimità disturbata soltanto da altri frequentatori in cerca di discrezione. Mi incantava quella passione così impudica, disinibita. Esiste, mi domandavo, esiste veramente la passione che ti strappa il cuore dal petto? Allora Romina mi tirava da una parte, dai vieni, mi diceva.”

“Finché non ci fermavamo in un bel posto, cercavamo il mare. Il nostro spirito cercava il mare. Andavamo al porto. Scendevamo sotto il sole, sdraiate sulla panchina, fumavamo e ridevamo, scoprendo nuove affinità.”

“Dallo strapiombo alla baia, in cima alla campagna, franavano fiori selvatici, un miracolo nella steppa. Lungo i sentieri, attraverso la campagna, raggiungevamo la punta estrema della costa. Lì sparivano le fabbriche. Ci guardavamo con Romina raggianti perché avevamo trovato qualcosa di nuovo, l’innocenza. Le onde si infrangevano con schiume vorticose in piccole isole frastagliate. Alla fine del mondo ci sembrò di vedere un fenicottero rosa. Era poggiato sulla cima della roccia in mezzo al mare. Alla fine del mondo. Di quel mondo che volgevamo alle spalle, con il nero astioso della ferrovia che sfuggiva oltre, il nero torvo degli androni e del tossico suicida. Nero come l’umanità trascurata che si dibatteva in luridi anditi.”

“Riconobbi il mio mare, immobile fino all’orizzonte. Ritrovai il sicomoro che amavo nella sua tenuta placida. E io vi appartenevo. Mi abbandonai alla promessa: ero io stessa la radice marcia.”

“Con Ilaria ci addentrammo lungo il sentiero che conduceva alla ferrovia, il più vicino al mare. Superammo il colle, sotto il sicomoro carezzai con gratitudine la ruvidezza dell’arbusto come se mi attendesse, sentivo la scabrosità così palpitante sotto le mie mani. Era lì per noi, stentoreo e vigile sulle nostre vite incapaci, la nostra consistenza nel mondo degli adulti era esigua, non esistevamo.”

“Sedevo all’ombra del sicomoro, guardavo il mare. Guardare un punto lontano laggiù verso la fine del mondo sbagliato era la mia giovinezza. […] Il mare era l’animale che affannoso si aggrappava alla riva[…]”

“Sedemmo l’una accanto all’altra, sotto il sole accecante di mezzogiorno. Guardavamo lo splendore, l’azzurro del mare, le onde crespe che parevano mordersi, in volute violacee e riemergendo alla luce in prospettive di blu più intensi. C’era l’aria leggera che non seppi più intercettare, oltre quel tempo. Ritrovai forse un profumo, ma non la stessa aria tenue di quei giorni.”

“Era freddo, di colpo. Alle case soffiava il vento del mare quando è agitato e viola. Le nuvole erano rapprese sopra le baracche. Il sentiero introduceva alla terra spoglia. Corsi verso le baracche, correvo graffiandomi le gambe con le spine dei cardi. Indossavo un vestito lungo e scuro e scarpe basse di tela. Era primavera.”

“I fiori degli aranci restituivano la leggerezza delle stagioni. Oggi mi sembra un fatto straordinario assistervi senza dover pagare un prezzo, sentirmi indegna. La primavera è per tutti. Anche per noi in quel tempo. Il nostro inverno perenne disconosceva la primavera.”

Un romanzo difficile, senza scampo, sconsolato sull’uomo come le opere dei mistici. L’unico bene viene dalla natura. Forse perché parla dell’adolescenza. Da adolescente anch’io avevo un rapporto con la natura che poi ho perso: guardavo gli scampoli di cielo, i voli d’uccelli, gli scarsi segni dell’alternarsi delle stagioni nella mia Pescara; guardavo il suo mare miserino e mi pareva che quel caliginoso buco di provincia fosse una voliera, il suo cielo biaccoso mi pareva tutto il cielo, il suo mare il mare odissiaco. Forse perché era l’età del liceo, delle prime poesie greche lette nei pomeriggi mentre facevamo i compiti, non so. Fatto sta che il tempo immobile di Mazzarrona è scandito dal tempo circolare delle stagioni, gli esseri umani che s’agitano nel romanzo paiono fatti della stessa sostanza delle lamiere e del sicomoro, e il mare sembra il luogo da cui potrebbe arrivare il messaggio che tutti, consapevoli o no, attendono. Non ce n’è molta, di letteratura contemporanea che conservi un così selvaggio rapporto con la natura. C’è una pagina di Calvino, in Una pietra sopra, in cui preconizza che la migliore letteratura del futuro sarà quella che riuscirà a ritrovare un rapporto con la natura. I libri di Veronica fanno parte della migliore letteratura del presente anche per come riescono a conservare, al loro interno, la natura.

Tutti i libri di Veronica sono personalissimi e coraggiosi. Questo sembra addirittura scritto con la sua voce. Chi conosce la voce di Veronica, bambina e roca, aspra e incrinata, di donna fortissima ma che sente con il mondo e che da tutto è ferita, la ritrova nelle pagine del suo romanzo. E ritrova anche –a dimostrazione che la grande scrittura ci riguarda sempre tutti, anche se racconta di uno solo- l’atmosfera dei tempi in cui il romanzo è ambientato. Ritrova anzi una vera e propria diagnosi su quell’epoca, gli anni Ottanta, così volgare e così carica di promesse di vita facile che poi non si sarebbero realizzate.

“Erano anni inutili, saziavamo una fame sbagliata. Tutto eccedeva. Non era la povertà o il suo contrario a svuotarli di senso. Erano anni senza anima. Il massimo a cui aspirare era l’Alfa 33 di Mary. Aspirare a farsi mantenere da un cornuto qualsiasi, diventare un’entraîneuse. Farcela. Male ma farcela. Guadagnare, esibire uno status normale e perciò edificante. Un impiego da segretaria in uno studio edile. Così da potersi mantenere una casa, con le tende alle finestre e i mobili acquistati a rate in un emporio di arredamento dozzinale. Erano gli anni in cui il dovere era la dozzinalità o l’esosità cafona, comunque andasse.”

Il senso del tempo che passa è uno dei mali che sembra corrodere le case di Mazzarrona. Luminosa resta soltanto la natura. E resta la bellezza di una prosa dotata di un’accecante forza poetica.

Mazzarrona_thumb.jpg

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto Twitter

Stai commentando usando il tuo account Twitter. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...