“Fotografia dell’11 settembre”

the-falling-man-wislawa-szymborska-300x169“Dov’eri l’11 settembre?” Pochi di noi risponderebbero “Non ricordo”. Un mio amico -avevamo ventun anni- tornò a casa e sua nonna lo accolse con la seguente domanda: “Paolo, hai visto che un aereo della seconda guerra mondiale è caduto sulla Casa Bianca?” Forse i troppi paragoni con Pearl Harbour avevano confuso l’anziana signora. Io invece mi trovavo per strada a Siena: ero uno studente universitario, tornavo dalla copisteria quando un amico mi disse, senza neanche salutarmi: “Hanno fatto un attentato contro le Torri Gemelle! Due aerei dirottati! Andiamo al bar, stanno facendo lo speciale!” Il bar era quello dove si guardavano le partite, ma per una volta si guardò il telegiornale.

Questi scampoli di conversazione mostrano con chiarezza una cosa: che dell’11 settembre si è cominciato a parlare subito moltissimo, ma non sempre a proposito. Anzi, non c’è stato evento, nella storia recente, di cui si sia parlato così tanto e così a sproposito. Chi elencava le dogmatiche ragioni degli States, chi sciorinava i loro torti spingendosi fino all’apologia dei terroristi… Un mio conoscente mi lasciò di stucco con questa dichiarazione: “Io sono europeista. Per essere europeista bisogna essere antiamericano. Bin Laden è antiamericano: Bin Laden è il mio eroe”. E del suo eroe mi mostrò un poster, appeso sull’armadio assieme a un ritaglio di giornale con le Torri Gemelle in fiamme. La stampa non si comportò in modo migliore: si mantenne al livello dei discorsi da bar. L’unico punto di vista che, in questo bailamme, non comparve mai fu quello delle vittime. Le immagini delle torri che implodevano vennero mandate a ripetizione sugli schermi; Umberto Eco a ottobre denunziò che i media erano presi da una forma di ecolalia: da un mese non facevano altro che ripetere “Hanno abbattuto le Torri Gemelle”. Si disse tutto, ma si disse poco di serio.

Oh, non bisogna credere che si parlò solo di cose inconsistenti: e non fu inconsistente l’eroismo dei volontari che si precipitarono a Ground Zero a dare una mano. Ma le vittime, quelle furono le meno menzionate.

Nel 2002 uscì un film a episodi intitolato appunto 11 settembre. Nel suo episodio, Alejandro González Iñárritu –il regista di 21 grammi– fece una scelta provocatoria: lo schermo restò nero quasi tutto il tempo; solo ogni tanto appariva, per pochi attimi, un’immagine delle Torri che crollavano, o di qualcuno di quei poveracci che s’erano lanciati dalle finestre per sfuggire alle fiamme. Nel sonoro niente musica e niente dialoghi recitati da attori: solo le registrazioni delle telefonate dei passeggeri, le voci di coloro che stavano per morire e che avevano chiamato casa, di nascosto, per dire: dei pazzi hanno sequestrato l’aereo e ci hanno dirottati. Iñárritu aveva reintrodotto in arte ciò che l’informazione aveva escluso: il terrore dei passeggeri dell’aereo, le voci dei morti poco prima della loro morte

Dell’11 settembre scrisse anche Szymborska. La sua poesia è agghiacciante; ma, come sempre, è così soave che bisogna porgere attenzione per coglierne la terribilità. Con Szymborska, bisogna fare sempre così: bisogna avere un orecchio fine per cogliere la musica dei suoi versi: bisogna leggere a fondo per cogliere il mondo che si spalanca nelle sue semplici parole. Ogni suo componimento è un paradigma di quello che può fare la poesia. Se il poeta è chi trova l’oceano in un bicchiere, la poesia di Szymborska è un oceano trovato dove nessuno crede che ci sia acqua.

Fotografia dell’11 settembre fa il contrario di ciò che hanno fatto i media: non grida, anzi dice sottovoce, e però dice con una limpidezza tale che le cose parlano da sole, come se non ci fosse la mediazione del poeta. Non sono le parole a farsi cose: piuttosto, sembra che le parole si facciano da parte, che provino orrore a toccare la materia di cui trattano. Rivolgono un garbato invito alle vittime della strage a venire sul palco: dopodiché, tacciono. Le vittime di Szymborska non sono quelle, inascoltate, dell’aereo: ma proprio quelle che abbiamo visto tutti, che si sono lanciate dalle Torri Gemelle in fiamme. Tutti le abbiamo viste, ma con occhi ciechi. Szymborska ce li apre. Gli spiccioli che cadono, le chiavi, sono tutta una vita che c’è ancora ma che già non ha futuro; una quotidianità che ancora pulsa ma che è destinata a morire. Sono quei dettagli che sfuggono all’attenzione dei media, che passano inosservati quando rivediamo immagini fin troppo note. I versi di Szymborska sono semplici, ma sono per pochi: per coloro che non si sono assuefatti alla quotidiana rassegna degli orrori da telegiornale, che dietro alle statistiche ancora intravedono uomini e donne. Sono il miglior antidoto all’assuefazione.

I volti non si vedono bene, nella fotografia di Szymborska: sono coperti dalle mani, nascosti dal sangue o dai capelli scompigliati; eppure ci sono. “Ognuno ha il proprio viso”, quello che lo rende unico. Ma l’attentato ha leso queste identità, le ha precipitate nell’abisso dove un essere umano diventa solamente un fatto storico. La fotografia di Szymborska segue in tutto e per tutto le fotografie reali, che abbiamo visto tutti sui giornali, ma dice ciò che ai giornali non interessa.

E c’è qualcosa che questa poesia c’insegna non solo sull’11 settembre, ma sulla poesia stessa. Oggi si dice che le parole non hanno più spazio. È un ritornello che ormai, a ripeterlo, paga. Non è vero. È una bugia. Di parole ce ne sono fin troppe. Siamo sommersi dalle parole, inondati da parole che spesso non significano niente. Come quelle che si sono dette sull’11 settembre. La gente non è più disposta ad abbandonarsi alle parole. Anche i poeti sono più smaliziati, non hanno più quella fiducia assoluta nel proprio mezzo d’espressione. La sfida di ogni poesia, che è dire con la parola quello che la parola non sa dire, che è fare della parola una cosa mentre la parola, per sua natura, gira attorno alle cose, quella sfida non è più possibile. Un poeta di oggi è un post-poeta e fa della post-poesia. Szymborska lo ha detto, con la sua grazia, negli ultimi versi: “Solo due cose posso fare per loro [le vittime della strage] / descrivere quel volo / senza aggiungere l’ultima frase”. La strage delle Torri Gemelle assurge a simbolo di un mondo che non è più comprensibile con gli strumenti della poesia e con quelli della ragione.

Ma la poesia è sempre sensitiva e concreta, e così finisce coll’avere un valore civile anche al di là delle intenzioni: perché, nel gran baccano che s’è fatto sull’11 settembre, solo il poeta, con la sua “dichiarazione di resa”, s’è assunto il compito d’invocare un silenzio rispettoso di chi aveva perso la vita, e di chi, con dolore, era rimasto.

Sono saltati giù dai piani in fiamme —
uno, due, ancora qualcuno
sopra, sotto.

La fotografia li ha fissati vivi,
e ora li conserva
sopra la terra verso la terra.

Ognuno è ancora un tutto
con il proprio viso
e il sangue ben nascosto.

C’è abbastanza tempo
perché si scompiglino i capelli
e dalle tasche cadano
gli spiccioli, le chiavi.

Restano ancora nella sfera dell’aria,
nell’ambito di luoghi
che si sono appena aperti.

Solo due cose posso fare per loro —
descrivere quel volo
e non aggiungere l’ultima frase.

(traduzione: Pietro Marchesani)

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