Un giovane critico col carattere di un paladino, una pittrice famosa ma ignorata dalla critica, una sorella della pittrice che è la confidente ideale. Questi i tre personaggi principali sulla scena. Un lago vulcanico in Campania, su cui affacciano le case dei tre, è lo scenario. Giovanna Amato muove i personaggi e muove la penna con grazia mozartiana, costruendo una dinamica psicologica che interroga a lungo il lettore anche a lettura finita ed anche per quegli aspetti che lascia misteriosi, nascosti dietro una conradiana linea d’ombra. Tutto, in Viviana del lago (Robin, 2019) è evocativo. Anche i nomi. Alessandro, il protagonista, è a modo suo un conquistatore che guadagna spazio nella vita di Chiara e Viviana. Chiara ha veramente un’anima chiara, e sua figlia Sofia si caratterizza per una sua infantile saggezza. Il cognome di Viviana, Santeremo, evoca la solitudine di un eremo ma anche la ricerca di un assoluto perseguito in modo ascetico, quasi una santità. Viviana è anche una personalità difficile, lunatica, egocentrica, una diva mancata organizzatrice di istrionici colpi di scena. Ma il registro della scrittura di Giovanna Amato non permette mai alla vicenda di sprofondare nel tragico. La sua prosa, pacata ma forbita, scorre come le acque del lago ed è illuminata dall’ironia. Viviana del lago, se proprio si vuol giocare al gioco dei generi, è un romanzo di formazione ma anche una favola, è una sceneggiatura, una commedia ma anche un dramma psicologico.
È un’opera che suggerisce a tratti una forma diversa da quella in cui è scritta -ad esempio una forma frammentata, con brani di epistolario, inserti saggistici ecc., una costruzione insomma meno lineare e che richiede al lettore maggiore partecipazione per rimettere insieme i pezzi. Ma l’autrice lascia che anche questa sia semplice evocazione: fa in modo che quella di una forma più aperta -di cui talvolta presenta le tracce- rimanga una potenzialità dentro una narrazione che è lineare ma suggerisce un’alternativa a se stessa. È come nelle suites per violoncello di Bach, dove la seconda voce non c’è, ma è suggerita; o in certe sonate di Beethoven, che suggeriscono l’orchestra, ma non funzionano se trascritte per orchestra.
Molti temi dolorosi emergono dalle pieghe del romanzo, ma sempre l’autrice li stempera con malinconiosa ironia. Rimangono, a lettura ultimata, il ricordo delle complesse dinamiche psicologiche che la narrazione intreccia -e su cui ci si continua a interrogare a lungo-; quello dell’atmosfera visiva del libro -non dimentichiamo che la vicenda si svolge nel mondo delle arti figurative-, il senso coreografico dell’intreccio e il senso musicale lasciato dall’andamento della prosa, una prosa mozartiana, bianca come la copertina del libro, che sfiora l’inquietudine e lambisce il mistero senza mai inoltrarvisi, e che si ritrae pudicamente laddove la tragedia si affolta.