“Vista con granello di sabbia”

Il problema della spaccatura fra l’io senziente (e pensante) e le cose è un antico problema. Ma, come molti antichi problemi, è rimasto insoluto ed anzi il progresso scientifico lo ha reso più complesso. Se i medioevali distinguevano fra una res e una vox, e se Kant scindeva il fenomeno dal noumeno, oggi il neurologo Rudolph Linas bandisce una verità sconvolgente: che quelli che noi chiamiamo “oggetti” in realtà non esistono, che i nostri sensi in realtà entrano in contatto con alcuni, pochi campi di forza elettromagnetici e ricostruiscono il mondo a partire da pochi dati incerti; che, in definitiva, “vedere è come sognare”. Ma intanto, per secoli e secoli, l’essere umano ha non solo “ricostruito” il mondo sulla base dei sensi e della mente, ha non solo, adamiticamente, “dato un nome alle cose”, ma ha anche attribuito loro una personalità. Nessuno non ha mai detto “Se questi muri potessero parlare”, “Questa è la casa che mi ha visto crescere” ecc. Rimane in noi un fondo panteista che ci porta ad animare gli oggetti. Non riusciamo a concepire un’esistenza priva d’intelligenza e sensazioni. Non riusciamo a concepire un’esistenza priva di vita. Litigare col computer o col navigatore satellitare è solo l’”aggiornamento” di un bisogno ancestrale: quello di dare un’anima all’universo.

Wislawa Szymborska è riuscita ad aggredire il problema con la leggerezza e la profondità che le sono abituali. Essa appartiene a una categoria d’artisti che trovano la perfezione in una semplicità autosufficiente. Non si può dire niente di più, e non si può dirlo con più grazia. La poetessa polacca si esprime con la solita ironia, eppure questa sua poesia mette i brividi: la verità che dice è più tremenda che ne La prima fotografia di Hitler: Szymborska ha provato a vedere gli esseri umani dalla parte degli oggetti, e s’è accorta ch’essi non vedono nulla. Lo sapevamo già? Certo! Ma lei lo ha sentito! Ha avvertito sulla pelle la mancanza di vita dell’oggetto.

Wislawa Szymborska è polacca. Questo fatto apparentemente banale diventa interessantissimo se leggiamo in profondità la sua poesia. L’Est europeo ha dato al mondo un compositore come Leoš Janáček, che, in anticipo sulle avanguardie storiche e sulla musica concreta, s’è posto il problema di un realismo musicale assoluto. Studiò il canto popolare moravo, trascrisse in note le inflessioni della lingua ceca e perfino i suoni e i rumori della strada. Creò melodie che imitavano le cadenze della lingua parlata o i rumori quotidiani, e le dispose in un ordine il cui caos apparente era invece regolato dal rigore con cui si sforzava di rispecchiare la struttura stessa della realtà.

Una sua cantata, I settantamila, è ispirata alla vita dei lavoratori di una cava, ed è tutto un rigurgito di grida, richiami, onomatopee… Se per il Beethoven della Pastorale “ogni pittura in musica, portata troppo avanti, si perde”, per Janáček è necessario che la musica si faccia deliberatamente onomatopea: come se il canto d’uccelli e il temporale della Pastorale si dilatassero fino a invadere tutto lo spazio artistico. È una concezione che contrasta con la cultura razionalista e idealista del Centro Europa, che si basa sull’“estrarre l’essenza” facendo riduzione e astrazione dagli accidenti. La concezione di Janáček è rivoluzionaria -l’avremmo trovata solo molti anni dopo, nelle avanguardie della musica concreta.

È affascinante confrontare l’onomatopea di Janáček col Naturlaut mahleriano. Il Naturlaut è una “voce della natura” ch’entra in un discorso stilizzato, ed è altamente stilizzata a sua volta. Ha valore di simbolo, di presagio, d’ideogramma funebre. In Janáček, ogni suono è solo se stesso. Tutta la sua produzione potrebbe essere un’appendice al verso di Gertrude Stein: “Una rosa è una rosa è una rosa è una rosa”. Ma Janáček fu un compositore di frontiera: sospeso fra il Romanticismo e i primi vagiti della Modernità, mise il suo realismo al servizio dell’espressione dei sentimenti, creando partiture che sono un equivalente musicale del discorso libero indiretto; dove la forma non risponde ad esigenze musicali, ma al bisogno di rappresentare la gamma emotiva e sensoriale umana nella sua affascinante interezza. Egli inventò una musica dove il succedersi delle emozioni era simile a un rutilante monologo interiore: nostalgia, felicità, furore e pace rotolavano l’uno dentro l’altra, s’alternavano e arrivavano finanche a sovrapporsi.

È qualcosa di simile alla fotografia della nostra psiche in un dato momento: un groviglio di stati emotivi pronti a mutare in qualsiasi altra cosa in presenza di uno stimolo, o per libera associazione. La sfida di Janáček consistette nel tradurre tutto questo in arte, nel cercare una forma per l’informe -non nel senso di dar forma all’informe, ma di creare una forma aderente alla realtà psico-fisiologica osservabile.

Negli stessi anni, dalla Russia veniva a Parigi Igor Stravinsky. Stravinsky negò che si potesse esprimere il sentimento in arte, e aspirò a una musica libera da emozioni. Naturalmente, non agì nel vuoto: la sua poetica non venne dal nulla: c’era stato prima di lui Debussy, che aveva posto al centro non l’emozione, ma la sensazione. Non si piange ascoltando Debussy. E c’era stato Ravel, “l’orologiaio svizzero”, che concepì la musica come artigianato, lavoro di precisione e di cesello. C’era stato Erik Satie, infaticabile sbeffeggiatore d’ogni romanticismo. Ma nessuno di loro prese una posizione così radicale. Solo Stravinsky portò la “musica degli insensibili” alle ultime conseguenze teoriche e pratiche.

Con Stravinsky la musica fu gioco, piroetta. Stravinsky, sappiamo, era russo. E sorge la domanda: perché il vento dell’oggettività fu così forte nell’Europa dell’Est? Io credo per un fatto molto semplice: la cultura dell’Europa orientale non è individualista come la nostra. Per esempio: la materia su cui lavorava Dostoevskij non è dissimile da quella dell’Espressionismo tedesco; ma Dostoevskij l’ha elaborata in chiave epica, l’Espressionismo in chiave psicologica. L’Est europeo ha fatto irruzione sulla scena artistica nel momento in cui l’Europa centrale stava per abbandonare il Romanticismo. Il rinato desiderio di razionalità degli europei, il bisogno di libertà dalle emozioni era figlio non solo della stanchezza verso un Romanticismo che stava esaurendo le sue possibilità, ma anche del fatto che l’epoca portava angosce così forti, che l’essere umano iniziò a rendersi conto che di null’altro doveva aver paura che di se stesso, e perse quella fiducia nella propria mente e nel proprio cuore che l’aveva sostenuto per due secoli. Purtroppo, la storia dei Paesi slavi è rimasta tormentata lungo tutto il Secolo breve. L’Europa slava e balcanica è stata il laboratorio sperimentale di molte delle peggiori aberrazioni del secolo, e non ha raggiunto la pace neanche ora. I compositori ungheresi Bartók e Ligeti, il greco Xenakis testimoniano tutti, con la loro musica, l’esigenza di riandare a sonorità primordiali, “minerali”, non umane. Milan Kundera, nei Testamenti traditi, ha scritto che esseri umani sconvolti dalla guerra e dalle dittature trovavano consolazione nell’insensibilità della Natura.

E torniamo alla poesia di Szymborska. L’autrice ha vissuto la più parte della sua vita sotto una dittatura, in un Paese in cui il vicino di casa o il giornalaio potevano essere una spia, un carceriere, un addetto alla tortura. Deve aver avvertito molte volte che l’unico conforto non poteva venirle che dall’insensibile Natura. È per questo, oltre che per la sua grazia naturale, che le è riuscito facile guardare il mondo dal punto di vista degli oggetti. Ed è per questo che la sua poesia suona così terribile. Vorrei essere in grado di leggere l’originale polacco, di poterne conoscere il suono: sono sicuro che sembrerebbe un suono della natura.

*

Vista con granello di sabbia

Lo chiamiamo granello di sabbia.
Ma lui non chiama se stesso né granello né sabbia.
Fa a meno di un nome
generale o individuale,
permanente, temporaneo
scorretto o corretto.

Del nostro sguardo e tocco non gli importa.
Non si sente guardato e toccato.
E che sia caduto sul davanzale
è solo un’avventura nostra, non sua.
Per lui è come cadere su una cosa qualunque,
senza la certezza di essere già caduto
o di cadere ancora.

Dalla finestra c’è una bella vista sul lago,
ma quella vista, lei, non si vede.
Senza colore e senza forma,
senza voce, senza odore e senza dolore
è il suo stare in questo mondo.

Senza fondo è lo stare del fondo del lago
e senza sponde quello delle sponde.
Né bagnato né asciutto quello della sua acqua.
Né al singolare né al plurale quello delle onde,
che mormorano sorde al proprio mormorio
intorno a pietre non piccole, non grandi.

E tutto ciò sotto un cielo per natura senza cielo,
ove il sole tramonta senza tramontare affatto
e si nasconde senza nascondersi dietro una nuvola ignara.
Il vento la scompiglia senza altri motivi
che quello di soffiare.

Passa un secondo.
Un altro secondo.
Un terzo secondo.
Tre secondi, però, solo nostri.

Il tempo passò come un messo con una notizia urgente.
Ma è soltanto un paragone nostro.
Inventato il personaggio, fittizia la fretta,
e la notizia non umana.

da Gente sul ponte
(traduzione di Pietro Marchesani)

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