Paesaggi pasoliniani

(Una prima versione di questo articolo è apparsa nel 2012 su Poesia, di Luigia Sorrentino.)

Un grandioso fallimento – Citati ha sintetizzato così l’opera di Pasolini. Non avrebbe potuto dire meglio: la grandezza di Pasolini è nella passionale coerenza con cui ha vivisezionato con la scrittura le sue lacerazioni (marxista e borghese, marxista e innamorato del Sacro, progressista per il motivo conservatore di salvaguardare la tradizione dall’avanzata dell’industrialesiamo, e che poi torna conservatore –ma per motivi progressisti- perché la piega presa dal progresso non gli piace; intellettuale coltissimo che scrive testi accessibili solo agli specialisti, ma su giornali popolari, e che applica la sua capziosa competenza tecnica, con amore commovente, agli aspetti più umili della lingua -la prosodia, le “calate” locali). Perfino i suoi dissidi privati, le coppie omosessualità e omofobia, vitalità e amor mortis, aggressività e tenerezza, sono vissute e raccontate a fior di pelle, facendo violenza a quel che lui chiamava un “selvaggio pudore”. La sua opera sembra la dimostrazione più drammatica –una dimostrazione “sulla carne viva”- dell’assunto di Mario Soldati secondo cui l’artista si sforza d’esser chiaro, ma il velo dell’ambiguità gli sfugge comunque dalle mani, e “fa” l’opera d’arte. Iperrazionalista, Pasolini si sforza di spiegare con minuzia le proprie disarmonie, e così facendo le accentua, getta una luce così chiara, così tagliente su ogni singolo aspetto della propria personalità da renderne irrimediabile l’incompatibilità con gli altri.

Cosa resta di lui, oggi? Se proviamo a far piazza pulita del Pasolini personaggio -con la relativa mitologia- e guardiamo alla sua opera come fosse stata scritta da uno sconosciuto, da un Omero di cui non si sa nulla, ci accorgiamo che l’operazione non riesce. Pasolini è troppo immerso nella cronaca, troppo “sporco” di attualità. E noi siamo ancora immersi in un mondo troppo pasoliniano, in una società in cui le sue analisi e le sue provocazioni sono ancora troppo presenti e troppo vive, e da cui non sono emersi problemi nuovi. Forse saremo liberi da Pasolini quando vivremo in una società meno pasoliniana. Di sicuro, fra le cose che di lui sono invecchiate annoveriamo non solo l’ideologia, ma l’intolleranza ideologica che qua e là lampeggia lasciando nel lettore d’oggi il fastidio per quell’angustia, per quell’improvviso chiudersi di una mente aperta. Il ricorso all’invettiva, all’epiteto volgare, se avevano senso nell’Italia bigotta di quegli anni, oggi si allineano a una volgarità e a un’esasperazione dei toni che ci hanno stufati. Certe cadute di gusto risultano per quello che sono: cadute di gusto e nulla più. Ma, se il discorso pasoliniano pecca qua e là di intolleranza e di fanatismo, colpisce la qualità di questo fanatismo: Pasolini non odia mai il nemico, ma odia ciò che, nel nemico, rivede di se stesso. Odia la destra perché, alle radici, è un uomo di destra; alcune sue posizioni appartengono a una specie di profetica retroguardia; altre -come quelle sull’aborto- sono semplici chiusure di un intellettuale ambiguo, il cui comunismo era un comunismo conservatore.

Sarà difficile, per i lettori di domani, capire la sua poesia: esperienza senza eredi perché troppo legata al suo creatore, troppo privata nelle motivazioni e troppo poco culturale, malgrado lo sfoggio d’erudizione. Un’esperienza che si allaccia all’antimodernismo enciclopedico di Dante e di Pound, rivelando la frattura di Pasolini dal proprio tempo, e che però non ha né la saldezza strutturale di Dante, né l’invasata e centrifuga unitarietà di Pound. Una poesia che “scorre fangosa”, come diceva Orazio di Lucilio, e che vive di momenti potenti o atrocemente delicati in un continuum stilisticamente, tematicamente, oratorialmente dispersivo e discontinuo. Non si può guardare ai singoli testi con la lente d’ingrandimento, ma non c’è neanche un “insieme” così compatto da poter fare da riferimento. Anche i testi più commoventi, toccanti o esaltanti non possiedono quella folgorante evidenza, quella proprietà della grande poesia di essere un fatto, di avere la spietata purezza di ciò che non dice e di cui non si dice, ma è. Non si trova, nella produzione di Pasolini, una poesia come I mari del Sud di Pavese. Gli mancava, del vero poeta, la capacità di sintesi. Eppure, singoli versi, singole “visioni”, singole associazioni di parole si levano alti sulla poesia italiana del Dopoguerra: poesia italiana che non capirà a lungo dove collocare la mina vagante di Pasolini nella sua storia degli stili, ma che non ne potrà fare a meno perché troppo disturbante è il vigore con cui un uomo vi ha espresso il proprio odio per se stesso, e per come ha cercato –grandiosamente fallendo- di superare i limiti stessi della letteratura.

Poesie come musiche di Ligeti – La mia esperienza di lettore pasoliniano è iniziata, come quella di molti, con gli Scritti corsari e le Lettere luterane. Poi ho incontrato la forza critica delle Descrizioni di descrizioni -con tutti i suoi errori, ad esempio su Joseph Roth e Garcia Marquez. Mi sono imbattuto nella radiografia della prosa gramsciana ne Le belle bandiere, nel discorso sulla lingua che occupa la prima parte di Empirismo eretico, con lo studio della pronuncia italiana di Saba e d’altri letterati. Il poeta m’era risultato difficile, e sporco, e lutulento. Poi ho letto La religione del mio tempo. E allora ho capito. Comprendere la poesia di Pasolini significa comprenderne l’aspetto visivo. Il suo verso ha pochissimo di musicale. Il suo incedere è lento e corposo, il ritmo inesistente. Se alla musica dobbiamo pensare, è alla musica di Ligeti, al suo procedere per accumuli. E in quest’accumulo denso troviamo, fra la sporcizia, intuizioni poetiche, combinazioni verbali sferzanti nel loro manierismo.

Meno discontinua di altre sue raccolte poetiche, e pur con tutti gli “errori” pasoliniani più tipici -ad esempio, l’errore del descrittivismo)-, La religione del mio tempo ha il suo culmine nel poemetto eponimo e nella bellissima Appendice dedicata alla madre; nel poemetto dedicato Ad un ragazzo -in cui è adombrata la morte del fratello Guido- e nelle Poesie incivili dell’ultima sezione -che, a dispetto del titolo, contiene meditazioni e raccoglimenti leopardiani. La ricchezza tocca l’acme con la Riapparizione poetica di Roma, e poi inizia a perder colpi, ma si risolleva, delicatamente, verso la fine, con la seconda evocazione (stavolta pudica, quasi mascherata) della morte del fratello. C’è il Pasolini ribelle e struggente, ferito dal contrasto fra ragione e passione, fra aridità, sconforto, esclusione dal mondo, rifiuto addirittura del mondo (con conseguente attesa e assaporamento della morte) e un amore cocente per le creature. Mai le contraddizioni di Pasolini avevano dato un risultato così alto in poesia, né mai lo ridaranno: il successivo Poesia in forma di rosa alterna pagine stupende ad altre ridondanti o di maniera, e Trasumanar e organizzar inaugura un modo “sperimentale” di far poesia poco congeniale alla corda essenzialmente lirica, mistica, pascoliana del Pasolini vero. Sono opere di un essere traumatizzato dal dissidio con la realtà. Risentono, quindi, del volontarismo con cui egli gettò sale sulle proprie ferite. Come negli ultimi film, in cui scelse di essere oscuro per dar corpo alla propria condizione di “diverso”, di “non capito” –compiendo dunque l’operazione volontaristica e, per dirla tutta, vittimistica che rende inautentica tutta la sua tarda produzione.

La lettura di Gassman – La poesia pasoliniana ha un colore speciale, intimo, tenero e caldo, d’una carnalità innamorata e da mattatoio, quand’è recitata dall’autore. Ma mentre Pasolini, con la sua voce timida, porta alla luce soprattutto l’umana ferita, la crepa dell’animo entro cui s’inscrive la poesia (e ne sottolinea dunque il carattere privato), Gassman entra in Alla mia nazione e Ballata delle madri con gli stessi accenti con cui entra nelle terzine dantesche, con la stessa solennità e con furibonda empatia. Indignato e sconsolato, Gassman riconduce questo Pasolini al Dante “civile”. La sua lettura restituisce questi versi alla grande tradizione italiana. E quando, sul finire di Alla mia nazione, l’attore lancia il suo ferino “Va, sprofonda in questo tuo bel mare, libera il mondo”, allora le due anime inconciliabili di Pasolini, l’uomo ferito e il lucido scrittore, per un istante sembrano ricomporsi.

Il tempo minerale – C’è una chiara continuità d’atmosfera fra Ragazzi di vita e i primi film di Pasolini, Accattone e Mamma Roma. L’uso della parola romana nella prosa letteraria, incorniciata dai versi di Dante, fa lo stesso effetto del corpo moribondo del poveraccio Ettore in Mamma Roma, inquadrato e chiaroscurato come nei dipinti tardorinascimentali. O del manierismo in virtù del quale Pasolini dispone poverissimi elementi -baracche, fango, gente di borgata- in un insieme che arieggia ai quadri rinascimentali. Il suo narrare ellittico, fatto di momenti cruciali, ricorda la tecnica di montaggio dei suoi film, suddivisi non in sequenze, ma in brevissimi piani che frantumano l’azione in una successione di momenti culminanti, intensissimi ma statici. Se il cinema è movimento, il cinema di Pasolini cerca l’immobilità nel movimento.

Le immagini a cui più spesso associo la sua prosa sono quelle di un grande, giallo e caldo sole che tramonta, o di una roccia vulcanica, appena condensata, col magma ancora ribollente sotto la crosta. Ma in nessun altro luogo quest’elemento “minerale” ha la stessa evidenza che in Mamma Roma, dove la musica di Vivaldi si sovrappone a un paesaggio fatto di sassi, di prati, di catacombe, su cui brulicano e s’agitano i ragazzini. Quella musica, estranea alle immagini, lontana dal tempo dell’azione, rivela che i ragazzi fanno parte, con le loro passioni, del paesaggio allo stesso modo delle catacombe e dei sassi: sono esseri millenari. Similmente, in Accattone, la Passione secondo Matteo di Bach, stendendo sulla misera vita dei protagonisti il velo del Sacro, vi stende anche un’aura di morte: quei personaggi sono già morti, già polvere, e il racconto filmico si rivela un racconto “a posteriori”.

Seguendo Mircea Eliade nel Mito dell’eterno ritorno e nel Sacro e profano, possiamo azzardare che per Pasolini, che aveva per sua stessa ammissione una visione miracolistica, sacrale, non laica della vita, il tempo sacro, custodito nell’immobilità della civiltà contadina e del sottoproletariato urbano, è rimasto intatto fino al secondo dopoguerra. L’avvento del consumismo ha segnato, per lui, la definitiva irruzione della Storia e del tempo desacralizzato. Alla dinamica età dell’oro-decadenza, tipica dell’escatologia alla rovescia del pensiero europeo conservatore, Pasolini arriva dopo lo scacco della sua escatologia positiva, del suo millenarismo di cattolico marxista.

Dichiarazione d’amore all’Italia – Comizi d’amore è il più intelligente e spensierato dei film di Pasolini. E forse il più sottovalutato. Non solo è un’inchiesta su sesso amore e coppia in Italia, ma è un ritratto dell’Italia, delle diverse Italie che non si conoscono, non si parlano e non si comprendono da una regione all’altra e da un gruppo sociale all’altro all’interno della stessa regione. Il documentarista Pasolini non giudica e si pone sempre con simpatia, tutt’al più con garbata ironia anche di fronte alle risposte più aberranti degli interlocutori. Non gli viene mai meno il rispetto umano per i singoli, l’amore per i singoli e per il popolo che rappresentano, anche quando esprimono tradizioni e mentalità inaccettabili. Fa piacere vedere così gaio e leggero un artista tormentato fino alla dissociazione come Pasolini. C’è molto di lui, in questo documentario: la critica alla società del benessere che non porta né benessere né progresso spirituali; l’amore con cui accoglie e perdona sempre l’oggetto del suo sguardo, come nelle ultime scene in cui canta l’elogio degli inconsapevoli, degli innocenti e degli ignari anche se ha capito che non si ha più diritto di essere inconsapevoli, innocenti e ignari. Questo documentario è per Pasolini ciò che la Quarta sinfonia è per Mahler: uno sguardo dall’alto sul proprio mondo espressivo, con lepida ironia, con una serenità inclusiva in cui nulla va perduto. All’epoca in cui fu girato (1965) la parte più aspra del pensiero di Pasolini doveva ancora venire. Come la Quarta di Mahler, Comizi d’amore si colloca nel felice passaggio fra i tormenti giovanili e quelli, irreversibili, della maturità.

La spiritualità dei corpi – Prendiamo ora un libro, Teorema. È un libro sbagliato. In una buona narrazione, si racconta ciò avviene e si lascia libero il lettore di costruire da sé la propria interpretazione: e questa non potrà essere che sfuggente, ambigua, complessa. I conti non devono tornare mai. Anche i romanzi in cui l’interpretazione è suggerita (Doktor Faustus) lasciano sempre una finestra da cui scappare. Il Don Chisciotte si presenta addirittura dando di sé l’interpretazione più inattendibile, quella di satira dei romanzi cavallereschi: e il bello è che Cervantes la credeva l’interpretazione giusta, e se non l’avesse creduto non gli sarebbe sfuggito dalle mani il Don Chisciotte.

Pasolini si comporta al contrario: dice poco di concreto e interpreta copiosamente, inciampando ad ogni passo in una categoria marxista. Se il racconto risulta lo stesso misterioso, è soprattutto perché è confuso, o forse semplicemente perché Pasolini è un artista: e l’artista, dice Soldati, ricerca d’esser chiaro, ma il velo dell’ambiguità gli sfugge controvoglia dalle mani, e crea l’opera d’arte. Dunque Teorema ha un suo fascino. Anche se racconta poco, interpreta troppo, e in più descrive, descrive, descrive. Tutta l’opera di Pasolini è visiva; ma Teorema fa l’effetto di un film poco riuscito di Antonioni, dove la parte drammaturgica non funziona, e quella estetizzante non è abbastanza poetica. La prosa, governata dalla pietosa ferocia delle antitesi, ha un retrogusto di macchina da scrivere, un sapore giornalistico che in quest’autore di solito non dispiace, ma che qui è troppo scoperto. Il cap. 27 della prima parte è appesantito dalla banalità delle frasi ad effetto e delle figure retoriche impiegate, e a pag. 89 trovo perfino un errore grammaticale: “…tanta oscurità e tanta luce entrati dentro di loro”.

Dov’è che Pasolini, anche in questo romanzo “non riuscito”, è sublime? Quando suscita la spiritualità attraverso i corpi: il loro calore, il loro odore, la loro dolcezza, il loro calvario. Questa è stata la sua più duratura invenzione, più che la “poesia civile di sinistra” di cui parlava Moravia.

2 pensieri riguardo “Paesaggi pasoliniani”

  1. Sicuramente la cosa migliore letta sull’argomento. In tempi di prose sciatte, entrare qui dentro è una boccata d’ossigeno (letto ascoltando il Concerto n°1 di Ciaikovsky, alla direzione Zubin Metha e al piano Barenboim).

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto Twitter

Stai commentando usando il tuo account Twitter. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...