Quattro film

Maestro, di Bradley Cooper (2023) – Mi aspettavo molto, c’è poco. Una ricostruzione perfetta degli ambienti, Bradley Cooper quasi identico a Bernstein nell’aspetto, nella mimica, nel modo di vestire, perfino nel gesto direttoriale. Però è un film su un tizio che fa musica ed è bisessuale e che, anche se ama profondamente la moglie, non riesce a non tradirla con uomini. Nulla della sua vita artistica, delle sue idee interpretative, del suo lavoro enorme per far conoscere la musica classica al pubblico televisivo americano e soprattutto ai giovani, nulla del suo impegno politico a fianco dei neri d’America o contro la guerra in Vietnam -per cui fu spiato per trent’anni dalla CIA. Più che un film biografico, è un film mimetico: l’attore è praticamente indistinguibile da Bernstein. Ma Bernstein non c’è.

(L) Portrait of Leonard Bernstein mid-1950s and Bradley Cooper in Maestro.

ken loachThe Old Oak, di Ken Loach (2023) – Bello come film, ma molto ottimistico e carente nell’analisi del razzismo. Loach lo fa dipendere tutto dal disagio sociale, ma c’è un razzismo sistemico della società dei consumi –suggerisco a tal proposito di leggere Consumo, dunque sono di Bauman- e i proletari d’oggi perlopiù sono figli di ex proletari imborghesiti durante gli anni del boom e poi riproletarizzati dalla crisi. È un razzismo nato dentro l’ideologia dei consumi, reso più feroce dal degrado sociale ma precedente ad esso. Il film ci racconta tutto sommato una specie di favola dove alla fine anche i cattivi un po’ si redimono e c’è una sorta di happy end. Nell’ immaginazione si può fare quel che si vuole. Ad Ostia dove vivo, nella realtà, per aver fatto molto meno di quello che fa il protagonista del film, un pub ha subito incendi dolosi e 500 ispezioni della finanza in un anno. Quella di Loach è un’ analisi marxista e secondo me il marxismo non è sufficiente ad analizzare il razzismo contemporaneo, che non è un fenomeno riconducibile alla sola dimensione economica ma ha un sostrato ideologico importante. Un bel film, comunque, dove si parla di una guerra ormai dimenticata, quella in Siria, e dove c’è tanta speranza. Io non amo la speranza, trovo che la realtà s’incarichi di ribattezzarla con il suo vero nome, illusione; dall’illusione nasce la delusione, e dalla delusione nasce la disperazione; e non è un granché. Concordo con Pasolini che la parola “speranza” dovrebbe essere cancellata dal vocabolario, e con Monicelli che la speranza è una trappola. Ma dicono che sperare faccia bene al cervello, quindi va bene così.

422601042_388929203827138_4570563960087789439_nLa ruota delle meraviglie, di Woody Allen (2017) – Altamente insolito per Allen, ma molto bello, forse il migliore da un bel po’ di anni. Un melodramma, ma a ritmo di jazz, e in atmosfere che stanno tra La Marie del porto di Simenon e Fellini. Non è “quel” Woody Allen, ma è un bellissimo film, e la cosa più commovente non è la dinamica umana -non è Mariti e mogli, forse il film più onesto della storia-, no: la cosa commovente è l’assoluta essenzialità, la semplicità estrema, la completa stilizzazione raggiunta, a più di ottant’anni, dal regista. È un film che parla con i suoi elementi formali: con lo splendido gioco di luci messo su da Vittorio Storaro,  con il tappeto sonoro tipicamente alleniano, con una stringatezza drammaturgica insuperabile perfino per Woody. Da uno della sua età e del suo livello non ci si può aspettare che rifaccia il nevrotico ipercinetico per cui è diventato famoso nel mondo. Allen sta al cinema un po’ come Richard Strauss sta alla musica: anche la sua opera può essere divisa in due fasi, quella rivoluzionaria e irriverente, che dura fino ad Harry a pezziMatch point è un film sopravvalutato per me- e quella della restaurazione, in cui maneggia un materiale più convenzionale, ma lo porta a un livello di raffinatezza stilistica ineguagliabile.  Quello che ci aspettiamo da lui è un capolavoro senile: e questo lo è.

RComizi d’amore, di Pier Paolo Pasolini (1965) – Devo dire, stando al film e a quello che c’è in giro, che poco è cambiato dal 1965 ad oggi nella considerazione della sessualità e dei rapporti di genere in Italia. In apparenza è cambiato tutto, e per un periodo forse è stato realmente così; ma il bigottismo, la meschinità, l’ ipocrisia venivano da troppo lontano per poter cambiare così rapidamente, e difatti sono rimasti; magari hanno cambiato forma ma sono rimasti -o sono rientrati dalla finestra, che non è poi tanto diverso. E se gli italiani del 1965 avevano come parziale scusante la povertà e l’ignoranza, quelli d’oggi non ce l’hanno. In sostanza, nel mondo moderno, facciamo un po’ la figura dei cafoni arricchiti: rivestiti, cambiati in tutto, ma con le stesse teste. Ed è abbastanza triste.

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