L’ultimo colpo d’ala

Quando Harry a pezzi uscì in Italia, nel 1998, corsi letteralmente al cinema a vederlo, perché Woody Allen è stato uno degli idoli cinematografici della mia adolescenza. Credo sia stato il primo suo film che vidi al cinema, e col senno di poi forse è anche l’ultimo del “vero” Woody Allen. I film di “quel” Woody Allen erano emozionanti e interrogativi, risolvevano nella comicità trasformazioni epocali -come l’avvento dell’uomo-massa in Zelig– avevano una loro asciutta poesia e si prendevano molte libertà rispetto alle buone maniere cinematografiche, come l’entrare e uscire dal personaggio in Io e Annie, la macchina a mano di Mariti e mogli e i raccordi di montaggio sbagliati di questo Harry a pezzi -che in realtà s’intitola Deconstructing Harry, destrutturando, smontando Harry: il titolo italiano è più banale. Adesso Woody è rientrato nei canoni, fa cose piacevoli ma convenzionali, anche il suo stile di recitazione è diventato un cliché. La sua longevità creativa però è invidiabile. In un libro di Cortázar, Un certo Lucas, proprio nella prima pagina il protagonista litiga con la fidanzata che vuole andare a tutti i costi a vedere un film di Woody. È buffo pensarci, ma, coi suoi 88 anni, l’uomo che nel 1977 diceva che “la morte è l’argomento fondamentale” ha attraversato tanto l’epoca di Cortázar quanto la nostra -anche se credo fosse più felice allora.
Harry a pezzi, o meglio Deconstructing Harry, non è il film più bello di Woody Allen -quello per me è ancora Io e Annie– e per poco non è nemmeno il più geniale -quello per me resta Zelig – ma è il più inventivo e il più amaro. Di sicuro il più politicamente scorretto, con Woody che fa battute sulla Shoah, inchioda la comunità ebraica al suo settarismo, fa uso di un linguaggio sboccato insolito nei suoi film e mette in scena senza mezzi termini l’ossessione erotica e la paura della morte. È anche il più pieno di personaggi e invenzioni surreali, tra la discesa agli inferi, i dialoghi con i protagonisti dei libri di Harry, e la meravigliosa trovata di Robin Williams che va fuori fuoco costringendo gli altri a mettersi gli occhiali per vederlo. Una girandola di invenzioni grottesche messe al servizio del personaggio più cinico e sgradevole mai interpretato da Woody Allen, uno scrittore, autore di romanzi alla Philip Roth, sregolato, senza scrupoli, dipendente dall’alcool e dai farmaci, traditore seriale delle sue compagne e assiduo di prostitute: qualcuno per cui possiamo provare simpatia solo perché è interpretato da Woody. Ma è proprio a questo personaggio che sono affidate le riflessioni più personali sul rapporto di Woody con la vita e l’arte: l’idea centrale è quella di un uomo che non funziona nella vita, ma che dà gioia al mondo con la sua prosa. Nel 1997, cinque anni dopo il disastroso epilogo del matrimonio con Mia Farrow, il discusso amore con la figlia adottiva di lei e addirittura le accuse -infondate- di stupro, il regista doveva sentirsi qualcosa di simile al suo Harry Block. Forse temeva il blocco creativo -che in effetti è arrivato e dura da allora, a dispetto dei film che il nostro continua a sfornare ogni anno, alcuni interessanti come Match point e Midnight in Paris, altri a malapena sufficienti- e sicuramente, come tutti gli uomini entrati nei sessant’anni, era propenso a bilanci, a domande sul senso dell’esistenza e soprattutto su quanta esistenza avesse ancora davanti. Harry a pezzi è, sotto questo aspetto, di una sincerità devastante: la vita fa schifo, ma anche la morte è tremenda, come rivela a Harry il suo amico morto d’infarto e ricomparso per un momento durante una notte in prigione. Solo l’arte è buona. Harry, infatti, dopo un sulfureo viaggio in macchina con una prostituta, il figlio rapito e un cadavere, non riesce a ricevere gli onori dell’università che lo voleva festeggiare, ma solo quelli dei suoi personaggi, in cui ha trasfuso parti di se stesso e della sua realtà, e riuscirà a superare il blocco creativo solo mettendo in scena quello che ha scoperto di essere: un uomo inadatto alla vita, che funziona solo nella scrittura. Una soluzione toccante nella finzione cinematografica, del tutto insufficiente nella realtà: anche Fellini, dopo aver fatto la stessa cosa in Otto e mezzo, sprofondò nella fallimentare lavorazione del Viaggio di G. Mastorna, per poi riemergere come un artista diverso, dalle visioni impregnate di morte, non più capace di raccontare storie umane, ma solo di tesaurizzare il pozzo senza fondo della sua immaginazione presa in se stessa. Woody Allen, dopo essersi messo a nudo in Harry a pezzi, ha cambiato strada, ha esplorato la commedia pura o il dramma dostoevskiano, ma forse ha ritrovato la sua vena più autentica -e però più stanca- solo in Crisi in sei scene, la mini-sitcom televisiva del 2016 che, in poco più di due ore, mette in scena una storia che è il rovescio satirico e disincantato della Pastorale americana di Roth.

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