Un giorno, da un CD ascoltato distrattamente in macchina, si è levata la melopea sforzata, lamentosa e dura di John Coltrane. Subito il pensiero mi è corso alle atmosfere allucinate, immobili, taglienti di Mazzarrona, il romanzo di Veronica Tomassini che avevo da poco iniziato a leggere e che sto ancora leggendo. Difficile spiegare il perché di quest’associazione. La prosa di Veronica non è propriamente musicale, è più che altro visiva. Eppure condivide con la musica di Coltrane quell’urlo a malapena trattenuto, quel senso del Sacro fatto di cose profane, quella mossa e irrequieta immobilità.
“I giorni di Mazzarrona erano il silenzio polveroso di mezzogiorno, quando le tende ai piani, luride, grezze, si gonfiavano al vento di Levante. Romina ascoltava dalla radiolina la musica melodica di un tale, un ambulante con la passione per la canzone napoletana. I ragazzini giocavano in cortili bianchi che si gettavano nella campagna fino a incontrare il terrapieno e la fogna nei canaloni. Le ciminiere ottenebravano l’orizzonte attraversato da navi petroliere. Romina fumava e cantava una canzone con un ritornello sentimentale, non aveva a chi dedicarlo. Le campagne si affossavano in calanchi, irregolari e anche maestosi. Nessuno di noi aveva un lavoro. Qualcuno aveva smesso di studiare, qualcuno non aveva nemmeno provato a immaginarsi diverso. I ragazzi delle case gialle spacciavano poco più in là. Pensavo a Massimo, lo vedevo concludere i suoi affari, colpevole e fragile. Pensavo che un giorno sarebbe corso da me mostrandomi le braccia pulite, senza piste. Lo pensavo pieno di vita, appassionato, agile, forte. E invece procedeva sempre così malandato, ricordandosi appena il suo debito con gli altri…” Così scrive Veronica. E, anche se in molti passi del romanzo afferma di odiare il jazz, per me non è possibile non pensare a quell’urlo soffocato che è la musica di Coltrane, al suo senso del sacro di persona passata per tutte le abiezioni. Difatti, cosa scrive Veronica poco dopo? “Romina era già vecchia a sedici anni, io non ero da meno, la nostra vecchiezza era cagionata da una stolta superbia, dalla certezza di aver visto tutto e di aver vissuto appena tuttavia”.
Ho definito Mazzarrona un romanzo, ma non è la parola giusta. Mazzarrona somiglia piuttosto ai poemi in prosa di Pavese –che difatti Veronica cita-, è un monologo lungo, ossessivo, straordinariamente compatto nell’insistere sul degrado materiale e umano e nel trovarvi tuttavia un che di miracolistico, il senso tra metafisico e religioso dell’attesa di un varco, di un altrove, di un qualcosa d’altro. Di un messaggio. Le vite inutili che s’agitano nelle pagine di Mazzarrona sembrano in attesa di un segnale dall’alto, di un senso, di un riscatto, anche quando hanno smesso di crederci. Somiglia anche, questo libro, ai “romanzi” di Thomas Bernhard per la il suo ribattere su un nocciolo di rabbia e di nevrosi, per il martellìo cui sottopone il lettore.
Malgrado sia l’affresco di un mondo miserabile e rozzo, Mazzarrona è un libro colto, intriso d’altra letteratura. La letteratura, in quell’angolo degradato di Sicilia, fa capolino come una promessa, come un messaggio dell’Imperatore –o di Dio- che nessuno sembra pronto a captare, tranne la voce narrante. “
“Dissi a Romina: c’è un romanzo di Moravia che mi intristisce maledettamente. Sai che non ho letto niente, lo sai. Rispondeva. È vero, ma io ti racconto, Romina, dissi. Ascolta. Hai presente questa noia, Romina? Vien voglia di morire. Non vedi quanto è duro e inutile il mondo intorno a noi, Romina? Le campane suonano, ed è un requiem. Mezzogiorno, la brace di qualcuno che ti arriva fino alle narici e ti stordisce per la mestizia. Romina ascoltava, continuando le sue faccende. A lei piaceva quando davo i numeri. Poi riusciva sempre a calmarmi. Vado in casa di quel tizio, quel cadavere nero, quello delle parole troppo lunghe. Ridevo, con risentimento. Fa l’operaio, la sua tuta orrenda e unta di grasso. I suoi film del cazzo presi a noleggio, mai che fossero film francesi. Film cazzoni con Steven Segal. Ridevo. Bruciano tutto alla fine, ridevo. Le auto si rincorrono e esplodono, prevedibili film del cazzo. Sono americani. Ridevo. Mangia dal suo stupido piatto di arcopal. Tremavo. Romina allora mi veniva incontro, ancora una volta. Ferma, tranquilla, solida. Allungava le braccia verso di me. Tremavo. Fino a sentirmi scuotere da parte a parte da un impeto cattivo. Romina allungava le sue braccia, io tremavo, fino alle lacrime. Finiva il mio delirio, tra le sue braccia forti, poggiavo la mia guancia sulla sua spalla di ragazza. Non c’era niente da fare. Solo aspettare, aspettare.”