Il mistero è altra cosa dal segreto. Il segreto è spiegabile, ma la sua spiegazione è nota a pochi: riguarda gli iniziati. Il mistero, invece, non è conosciuto da nessuno: riguarda le cose ultime, e nel momento in cui anche uno solo ne trova la chiave, cessa di essere un mistero. La vera arte mescola segreto e mistero. Il segreto è perlopiù la sua tecnica, il mistero ne è la sostanza. L’arte di Chiara Romanini riguarda il mistero, lo lambisce, ci gioca senza azzardarsi mai a interrogarlo. Anzi tiene il più possibile a conservarlo. Lo osserva nelle cose che le si presentano sotto lo sguardo, lo scova, lo restituisce. Sempre intatto. O meglio, trasformato in forma, che è il modo migliore per conservarlo.
Scrive Adam Zagajewski in una poesia intitolata Tardo Beethoven:
…gioia, gioia selvaggia
della forma, radiosa sorella della morte
Questi due versi sono a loro volta un mistero. Il loro significato è evidente, ma impossibile da parafrasare. È impossibile “dire a parole nostre” la verità che Zagajewski esprime in questo pugno di parole. Il loro mistero, il loro attingere alle cose ultime, è nella forma. Allo stesso modo si presenta l’arte di Chiara: il suo mistero è nella forma. La composizione dell’immagine, il suo bianconero, le sue sgranature, il suo tocco anticheggiante creano atmosfere entro cui fluttuano visioni. Bambine avvolte in candide vesti, tendoni da circo, clown, donne che indossano maschere di una selvaggia antichità, passi di danza, interni sbrecciati, muri diroccati, termosifoni cadenti; e specchi sporchi che riflettono le figure senza mostrarne il volto, finestre che custodiscono il cifrario di un Altrove sigillato, tende che velano volti, sguardi intensissimi che emergono da fondali di essenziale raffinatezza. È tutto un mondo sonnambolico, un rievocare cose perdute che possono essere recuperate solo in parte. Le figure quasi levitano, sfiorano la terra come se stessero per partirne. Le immagini hanno una qualità insieme familiare e inquietante, sembra un guardare oltre la morte, un parlare, a volte, coi morti. Se fosse musica, sarebbe musica di Nino Rota, il compositore che affermava di dialogare con le anime dell’aldilà… Chiara Romanini sembra recuperare queste immagini da una memoria incompleta, al modo in cui si recuperano al risveglio i fotogrammi semiscomparsi del sogno. E c’è una nostalgia bruciante del sogno, sempre associata però alla consapevolezza della sua irrecuperabilità. Dei contenuti perduti non importa sapere quali siano, importa che siano cose care, ma anche solenni, cose sacralizzate da una mitologia personale: come il padre di Bruno Schulz, che, sacralizzato dalla mitologia personale dello scrittore, diventa protagonista di misteriosissimi racconti. Le testimonianze di questi sogni, le tracce semicancellate delle cose perdute, riaffiorano nella quotidianità impure, mescolate ad altri materiali che le sporcano, ed è così che la fotografa le raffigura: nella loro struggente irrecuperabilità. Si ha sempre una sensazione di incompleto, di non detto di fronte a queste fotografie. Ma esse sono sempre anche radiose nella loro ostinata interiorità. Facciamoci caso: nelle immagini di Chiara il buio è quasi assente: le visioni si presentano alla luce del giorno, o in penombra. Proprio come i frammenti del sogno recuperati durante la veglia. Consapevole e visionaria, l’artista sciorina il cifrario del suo Altrove: un Altrove da cui si proviene e verso cui si tende, e che ricorda il nulla che precede e segue le nostre vite. In questa misteriosa luminosità, Chiara realizza l’evocazione ardente di Zagajewski:
…gioia, gioia selvaggia
della forma, radiosa sorella della morte.