Il responsabile dei servizi per la Comunicazione era il dottor Fausto Torrefranca. Il dottor Torrefranca era un comunicatore così perfetto che a tavola lo si poteva reggere al massimo per un quarto d’ora, dopodiché la sua comunicativa faceva l’effetto di un robot programmato per comportarsi come un imbonitore di piazza, ma che, per un errore di programmazione, continuava a fare l’imbonitore di piazza anche mentre deglutiva uno gnocco al ragù. A un corso di formazione per aspiranti assicuratori, il dottor Torrefranca aveva tenuto in scacco un’intera classe di aspiranti assicuratori, e per una domenica intera aveva insegnato loro la gestualità da adottare, le parole da usare o da evitare, le tecniche di rispecchiamento con cui abbindolare il cliente; ed era riuscito a umiliare tutti spiegando come e qualmente mancassero di un atteggiamento professionale, come le donne avessero più un atteggiamento da locanda a ore che di professionale ruffianeria, come il più emotivo del gruppo avesse una gestualità da dissociato e il più timido apparisse debole come un agnellino su cui i lupi si sarebbero gettati per sbranarlo, perché, ricordatelo bene, l’essere umano è un animale e quando sente l’odore del sangue si getta sulla preda, e chi si mostra debole è destinato a far da preda perché gli altri sentono l’odore del suo sangue. Questi ed altri erano gl’insegnamenti che colavano come oro dalla bocca del dottor Torrefranca, almeno per quella parte della comunicazione che è chiamata non verbale o paraverbale. Il suo insegnamento riguardo la verbalità poteva invece riassumersi in principi molto semplici: usare moltissime parole; evitare le parole concrete; se una cosa era concreta, non dirla. Naturalmente, per una buona comunicazione verbale era preferibile aver conseguito almeno un master in un Paese angloamericano, dove s’imparavano tante parole angloamericane che facevano più comunicazione rispetto alle gemelle italiane. Era come nella nota battuta: se nella vita uno dice “Voglio aprire una salumeria”, nella comunicazione deve quantomeno spiegare che intende aprire una startup innovativa destinata alla produzione e commercializzazione degli insaccati sliced.
Questo era l’insegnamento del dottor Torrefranca. Non un movimento della mano, non una alzata di sopracciglio, non una incrinatura nel tono della voce (vale a dire uno scarto nel mood della voce) appariva lasciato al caso. Il dottor Fausto Torrefranca era professionale financo quando espletava i suoi bisogni corporali. Aveva sempre la risposta pronta, anche se raramente si poteva capire il contenuto della risposta stessa. E quella sera di maggio, era domenica, gli aspiranti assicuratori avevano passato tutto il pomeriggio nelle grinfie del dottor Torrefranca ed erano onorati di poterci andare a cena nella mensa convenzionata colla compagnia assicurativa; e le rondini potevano lanciare a gola spiegata il loro stridìo fendiporpora nel cielo che imbruniva; e un ranuncolo poteva essere sorto come un errore in quel quartiere dove nessuna aiuola aveva interrotto l’efficienza dei capannoni destinati alla produzione di beni e dei palazzoni destinati alla produzione di soldi; e il mondo circostante poteva avere in serbo ogni sorta di sorprese, potevano arrivare pure gli extraterrestri quella sera, ma gli aspiranti assicuratori non avrebbero avuto occhi e orecchi che per il dottor Fausto Torrefranca. Il quale però non si rivelò un commensale all’altezza delle aspettative: prima intrattenne tutti i convitati col racconto dei suoi tempestosi rapporti col padre, poi colla storia di come e qualmente quest’ultimo non l’avesse mai riconosciuto e avesse quindi abbandonato lui e sua madre, onde il dottor Torrefranca portava il cognome della madre; poi andò a proporre i propri mirabolanti servigi comunicativi al direttore della mensa convenzionata colla compagnia assicurativa; e infine si prese una ciucca triste così triste che attaccò a cantare tristissime canzoni slave, spiegando che il suo cattivo padre era croato e che per questo lui conosceva quella musica e quella lingua; e il corpo controllatissimo del dottor Torrefranca, un vero strumento, durante il giorno, nelle mani della comunicazione aziendale, era divenuto, di sera, quello d’un bambino da portare a letto perché da solo non ce l’avrebbe fatta mai. Sia il suo verbale che il suo paraverbale avevano fatto cilecca quella sera. Ed al rientro in albergo, qualcuno degli aspiranti assicuratori era andato a letto colla sensazione d’aver sprecato una domenica e col rimpianto per quei filmati d’epoca dove si vede com’era la gestualità reale delle persone, prima che i consulenti d’immagine intervenissero a rovinarla.
Il dottor Fausto Torrefranca aveva svolto la sua professione come un apostolato, e come a un apostolato aveva sacrificato la sua vita: di sua moglie e di sua figlia s’eran presi cura i deboli, quelli di cui il dottore sentiva l’odore del sangue. Lui s’era accontentato di consolarsi nelle camere con coperta che la compagnia assicurativa gli metteva generosamente a disposizione. Il dottor Fausto Torrefranca svolgeva anche un fervente apostolato in chiesa, perché, quando il lavoro lo permetteva, andava a messa ed era molto devoto; e si pentiva sinceramente della sua passione per le camere con coperta, sì da ottenere l’assoluzione che poi gli consentiva di riprendere tutto come prima e di godere dei piacere di altre camere con coperta. Ma quella ciucca triste non passò inosservata. Il dottor Torrefranca aveva cinquantuno anni, era venuto il momento che si prendesse una lunga vacanza, che facesse spazio ad un giovane più appealing e più comunicativo, e soprattutto figlio del miglior district manager della compagnia, un giovanotto che, oltretutto, era stato davvero in America e aveva imparato tante parole angloamericane più affascinanti di quelle del dottor Torrefranca. Trovarsi senza lavoro fu, per quest’ultimo, come trovarsi all’improvviso apostolo di veruna chiesa; e una sera, un mese dopo la sera della ciucca, le rondini stavano stridendo a gola spiegata nel cielo azzurreggiante di giugno, quando il cadavere del dottor Torrefranca venne recuperato nel Tevere.
Chissà per quante persone sarà stato proprio così. Racconto scritto, come sempre, benissimo.
Grazie di cuore.