Voci dal mare

Prima di essere morti erano vivi. Ci sono voci sul fondo del mare. Voci che il mare ha zittito. Prima di morire erano così pieni di vita da sfidare la morte per salvarsi, da mettere in pericolo la vita -e così generosi da sfidare la morte per mettere in salvo i loro cari. Ora queste voci tacciono, zittite dal fondo del mare.

VOCE DA ALEPPO – Era il fiume a portare i cadaveri. Chi voleva sapere se il marito era vivo o morto, doveva andare alla baracca lungo il fiume. Non era facile che identificassero il corpo. Una famiglia, una volta, era andata a cercare il proprio figlio. Ha trovato invece la figlia, era un tronco senza testa e senza braccia. Hanno sepolto quel tronco. Ma poi gli è stato detto che la figlia era viva, anche se non è mai tornata a casa. Loro la figlia non l’hanno rivista. E qualcuno -chi dei tanti?- sta cercando quel tronco sepolto.
E bisogna stare attenti, perché quando qualcuno scompare è un pericolo far sapere che lo cerchi: potresti scomparire anche tu. A molti è successo: di casa in casa scompariva qualcuno, poi qualcun altro. Poi in casa non c’era più nessuno. Le bombe una volta hanno buttato giù una casa vuota.
Chi non trova il marito nella baracca lungo il fiume, deve stare attenta a cercarlo: se i governativi se ne accorgono, fanno sparire anche te. E allora io mi sono rivolta agli intermediari, ma gli intermediari vogliono soldi, vogliono troppi soldi e spesso dicono bugie, vogliono sempre più soldi e ti fanno aspettare e intanto ti dicono bugie. Il tempo passa e non ti puoi accontentare di bugie. Sono pochi quelli che tornano dopo essere scomparsi. Ditemi, ch’è vivo, ditemi anche che è morto ma ditemi qualcosa! Mi sono chiesta: cosa avrebbe voluto mio marito? Avrebbe voluto che io cercassi di mettere in salvo i ragazzi. Fuori da questo Paese. Aleppo, guerra; Siria, guerra. Ho avuto l’occasione di scappare. Ma sapevo che senza certificato di morte non mi avrebbero accettato oltre il confine. Molte altre sono tornate indietro, e ora sono senza casa da qualche parte, senza né dove andare né dove tornare. Ci vuole il certificato di morte per poter passare il confine. Ma chiedere il certificato di morte è un percolo. Non lo so se mio marito è morto. Non so se gli auguro di essere vivo, con quello che si sa delle prigioni. Chi è andato a chiedere il certificato di morte spesso non è tornato. E non c’era  tempo!  Era passato più di un anno. Davo soldi agli intermediari, ma gli intermediari prendono soldi in cambio di bugie. Sono riuscita a scappare, di notte in notte, di bombardamento in bombardamento, io e i ragazzi nascosti come piattole, per i crateri delle bombe, per le strade spopolate oppure troppo popolate, abbiamo schivato l’artiglieria e rasentato i muri delle città crollate. Non sono riuscita a schivare gli stupri, non sempre. Chi ci aiutava poi voleva un prezzo. Tutto pur di arrivare. Alla fine eravamo piattole nella stiva di una nave. Tutto pur di arrivare. Ma non siamo arrivati. Chi sta nella stiva muore per primo: è la legge. Chi l’ha infranta è stato respinto nella stiva. Si va giù. Ed ora dormiamo, io e i ragazzi, in un sudario di alghe, e riviviamo nelle sarde che ci mangiano e riviviamo in voi che le mangiate.

Aleppo, guerra. Mediterraneo, naufragio. Ora dormono tutti sul fondo del Mediterraneo.

VOCE DA NON SI SA DOVE – In Iraq non potevamo stare. Ci ammazzavano prima i gas, poi le bombe, poi le bande. La Mesopotamia rigogliosa era diventata una catastrofe ambientale sotto il sole e la falce della luna. Ci siamo messi in marcia per vivere. A Damasco, come Lawrence! A Damasco. Ma anche lì dittatura, non si può parlare in curdo, non si può scrivere poesie in curdo. Un vicino, un poeta curdo, una poesia recitata in curdo, arrestato. Poi di nuovo guerra, poi di nuovo esilio. Eravamo di nuovo sfollati, vagabondi del cosmo, non curdi e non siriani, e nemmeno iracheni e nemmeno apolidi. Semplicemente non esistevamo. Qualunque banda di qualunque fazione impediva ai portatori di cibo di arrivare. Prima era andata via la corrente, poi l’acqua, poi bombardavano le file per il pane. I ragazzi morivano bombardati nelle file per il pane. Il pane simbolo di vita, la spiga simbolo di fertilità, erano diventati simboli di paura. E la casa. Ci hanno intimato di lasciarla. Perfino i nostri ci sfollavano, curdi che deportavano altri curdi. Perché la guerra è guerra e non si può stare dove si vuole. Non si può stare da nessuna parte. Siamo stati nel mare. Siamo ancora nel mare. Ci hanno tenuti nell’acqua a Kos, dove temevo i poliziotti greci quasi quanto i soldati delle mie terre. Prima scappavamo sulla terra. Ora eravamo prigionieri nell’acqua del Mediterraneo. Abbiamo chiesto aiuto. Abbiamo pagato un prezzo per essere aiutati. E stiamo di nuovo scappando. Era quasi rassicurante scappare. E’ la nostra routine, scappare. Ma siamo di nuovo imprigionati. In una barca che non tiene, tra Libia e Sicilia, troppo distanti da partenza e arrivo. Si va giù.

Aleppo, guerra. Al-Raqqa, Husseiniya, Tel Hamees. E poi naufragio, naufragio nel Mediterraneo. Ora dormono tutti sul fondo del Mediterraneo.

(immagine tratta dal libro di Khaled Hosseini  Preghiera del mare)

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