Nino Rota

Io sono il sogno, e il mio sogno è apollineo. C’è tutta una musica che cerca di rispecchiare le disarmonie del mondo. Federico si è sforzato, coi suoi film, di dare luce alle disarmonie della sua anima. Io invece ho bisogno di geometria, di leggerezza. Io parlo coi morti, e coi morti bisogna andar leggeri. Gli spiriti sono eterni, ma fragili. Faccio sedute spiritiche in cui risveglio i fantasmi di una tradizione. Io parlo coi morti. Ho preso un quintetto di Dvořák e l’ho trasformato nel tema de La strada. Ho copiato? No. Ho fatto come Igor. Lui ha preso la musica di Pergolesi e l’ha rifatta sua. Ma ha riletto il passato coi suoi occhiali d’oggi, perché chiamarsi Igor Stravinsky significa avere addosso la maledizione della modernità anche se non vuoi. Io ho riletto l’oggi con gli occhali del passato. Sono morto e parlo coi morti. Mi riesce la musica per film perché i film sono sciardade di fantasmi. Mi riescono i film pieni di fantasmi, come quelli di Federico e Luchino. Sono riti che risvegliano i fantasmi. Anche la mia musica è un rito, è una messa, non nera, non solenne. Ho un dialogo amichevole coi morti. I miei amici vivi, Soldati, Marvulli, sono tutta gente gioviale. Non mi piace il dolore. Il dolore appartiene alla vita. “Nuje simmo serie… appartenimmo à morte!” ha scritto un grande comico -morto pure lui. Anch’io, come lui, sono serio. E gioco, perché su questa terra, da morti, si può solo giocare.

(fotografia: Luigi Ghirri)

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