La vita felice di Kiril Kondrashin

(quadri della vita musicale sovietica)

1. Un miracolo pagano

Per secoli la musica in Russia è stata un peccato e ha sentito essa stessa il rimorso di essere musica. Essendo un peccato, ha percorso strade sotterranee, e quando è tornata alla luce era rimasta in lei la traccia di epoche più antiche, quando Cirillo e Metodio non avevano ancora compiuto quel genocidio culturale che va sotto il nome di “cristianizzazione” e non avevano ancora cambiato la terra di Igor in un monastero senza gioia. Bandita dalla religione e costretta a percorrere vie secondarie, la musica russa ha conservato -come la terra conserva gli scheletri dei dinosauri- ritmi poderosi, energie selvagge, scariche di sofferenza e forza primordiali. I musicisti russi hanno ereditato un rapporto tormentato con la musica. Per il musicista russo la musica è rimasta un peccato e lui si vive come un peccatore. Kiril Kondrashin è stato un miracolo pagano, un musicista russo senza sensi di colpa.

 

2. Sotto il giogo di Stalin

Il Concorso Caikovskij fu bandito da Krushev per dimostrare al mondo che la politica culturale sovietica non consisteva solo nell’internare intellettuali dissidenti negli ospedali psichiatrici. Krushev era un bel tipo: appena insediato, nel 1956, fece un rapporto sui crimini di Stalin -il Rapporto Krushev– e annunciò al mondo che con lui sarebbe iniziata una nuova era. La nuova era cominciò con l’invasione dell’Ungheria e l’internamento in Gulag dello scrittore Alexandr Solgenitsin.

Anche i musicisti, sotto Stalin, avevano vissuto giorni amari. Il caso più famoso è quello di Dmitrij Shostakovich, che esordì negli anni Venti come un compositore esuberante e sarcastico, attratto dalle novità della musica occidentale. Allora l’URSS era una fucina d’avanguardie. Ma poi, è il caso di dirlo, la musica cambiò. Sembra che fu Stalin in persona a scrivere sulla Pravda l’articolo che nel 1934 stroncava Shostakovich, accusandolo di essere un “formalista” e di essersi allontanato dal gusto del popolo. Le direttive sovietiche imponevano, perché la musica fosse accessibile al popolo, di non andare oltre lo stile di un Rachmaninov. Una beffa, perché Rachmaninov, in quegli anni, era a Beverly Hills a godersi quel patrimonio per salvare il quale era fuggito dalla sua patria rivoluzionaria. Era il più borghese dei compositori, e la musica romantica è stata una musica borghese. Imponendo di restare entro i limiti stilistici del Romanticismo, le autorità bolsceviche imponevano, di fatto, all’arte di essere borghese. Per tutto il periodo di Stalin, Shostakovich tenne i suoi capolavori nel cassetto, in attesa di tempi più ospitali. Quei tempi sembrarono arrivare con Krushev. Shostakovich tirò fuori molte opere dal cassetto. Ma presto dovette accorgersi che le cose non erano cambiate poi troppo. Durante un viaggio negli Stati Uniti fu costretto a leggere un discorso contro i compositori non allineati allo stile socialista. Fu ridicolo quel discorso in bocca a lui, che non aveva mai avuto uno stile socialista. Ridicolo e colpevole perché, fra i nomi che dovette fare, c’erano quelli di molti suoi amici. Li disconobbe, e fu da essi disconosciuto. Dopo quel discorso, Shostakovich fu per l’Occidente solo un compositore di propaganda. Arturo Toscanini, il direttore d’orchestra emigrato in America per non scendere a patti col fascismo, il direttore simbolo dei musicisti antifascisti, dopo quel discorso si rifiutò sia di incontrare Shostakovich che di dirigere ancora la sua musica. È facile accusare il compositore di viltà. Che alternative aveva? L’unica era di non tornare più in Russia. Avrebbe potuto chiedere asilo all’America, glielo avrebbero concesso. Ma Shostakovich era legato alla Russia da un rapporto troppo viscerale. Chi non è russo non può capire. Anche Dostoevskij aveva bisogno della Russia per scrivere. Gli artisti russi sono come alberi: hanno bisogno della loro terra. Ogni notte Shostakovich si infilava nel letto con la giacca. Sotto il letto teneva una valigia con tutto il necessario casomai fossero venuti a prenderlo. Pronto al Gulag come alla morte, sentiva di star vivendo troppo a lungo. Quando morì il suo amico Sollertinskij, scrisse alla moglie: “Lui è morto ed io sono vivo”.

 

3. Il concorso Caikovskij

Ma all’inizio Krushev sembrava davvero una speranza. Il nuovo presidente voleva fare qualcosa di nuovo anche per la musica. E così nel 1958 bandì il Concorso Caikovskij, il concorso internazionale dell’arte pianistica. Vennero pianisti da tutto il mondo, ma l’obiettivo era far vedere che i russi erano i migliori. La giuria era preparata a premiare un pianista russo. Non avevano previsto Van Cliburn.

Harvey Lavan Van Cliburn Jr, in arte -e per comodità- Van Cliburn, era un texano alto due metri e timido come Charlot. Ma quando si sedeva al pianoforte diventava sicuro come un dio. Il presidente della giuria si trovò a dover scegliere fra una sconfitta della madre Russia e una figuraccia internazionale. Telefonò a Krushev. Krushev chiese: “L’americano è il migliore?” “Sì.” “Allora premiatelo.” Van Cliburn aveva sbaragliato i concorrenti russi interpretando il Concerto op. 23 di Caikovskij, il più russo di tutti i concerti, con un’orchestra russa diretta da Kiril Kondrashin.

Kondrashin era uno stregone. Aveva occhi sornioni e lampeggianti. Perfino il suo sorriso era autorevole. Sul podio si muoveva con energia. Sia che impugnasse la bacchetta, sia che dirigesse a mani libere, i suoi gesti erano secchi ma eloquenti. La Patetica di Caikovskij, con lui, non è patetica: è una tomba che l’ascoltatore è costretto a scavarsi, e in cui alla fine si getta. Nemico del sentimentalismo, Kondrashin dirigeva Mahler, ma non cercava in Mahler l’autore delle sontuose ballate della disfatta che mandano in visibilio le platee occidentali. Cercava lo sperimentatore di suoni. Il Mahler di Kondrashin è fatto di dettagli, ma non ci si perde in quei dettagli, perché i tempi di Kondrashin sono veloci, e non permettono di soffermarsi. Va dritto al punto con veemenza, e in questo è molto russo. Ma non è cupo.

 

4. Un vero amico

In quel momentaneo disgelo, forte dell’amicizia con Van Cliburn, Kondrashin si esibì in Occidente, e l’Occidente gli piacque. Piacque anche lui all’Occidente. Tre anni dopo, nel 1961, l’amico Shostakovich gli chiese di dirigere in prima esecuzione la sua Dodicesima sinfonia. Lo aveva già chiesto a un altro grande direttore suo amico, Evgenij Mravinskij. Ma Mraviskij, gigantesco sul podio, non lo era altrettanto nella vita. Mravinskij era amico di Shostakovich, ma in quel periodo Shostakovich era un “nemico del popolo”. Era accaduto così: a metà degli anni Cinquanta, il governo gli aveva commissionato “una Nona sinfonia grandiosa come quella di Beethoven” per celebrare il decennale della vittoria in guerra e il sacrificio dei soldati russi. Shostakovich si era presentato con una sinfonia leggera e frizzante, che festeggiava non la vittoria in guerra, ma la pace. Fu bandito. Per anni, sui cartelloni dei concerti, il suo nome fu accompagnato dalla dicitura “nemico del popolo”. E anche quando la dicitura fu tolta, le sue sinfonie furono oggetto di censura. Mravinskij, pluridecorato eroe dell’arte sovietica, temette la censura e rifiutò. Il compositore ruppe con lui e affidò la partitura a Kondrashin.

Kondrashin si dimostrò un vero amico, e potrò la sinfonia in trionfo sfidando la dittatura. All’apice del successo, Kondrashin poteva permetterselo perché era simpatico e amato. Shostakovich e Mravinskij erano giganteschi, ma non erano simpatici né amati.

 

5. L’Occidente

Quando Shostakovich morì, nel 1975, era malato di delusione e di paura. Coi nervi in disordine, gli occhiali spessissimi, negli ultimi filmati si muove a scatti per l’avanzare di una rara forma di polio. Il violoncellista Mstislav Rostropovich ha detto che la musica di Shostakovich esprime “la forza dell’animo russo”. Ma, se la sua musica era forte, lui come uomo era un essere infranto. Scriveva lettere agli amici, e le scriveva in codice perché la censura gliele apriva. Prokof’ev, il suo grande rivale, quello che per Rostropovich aveva espresso “la vastità dell’animo russo”, aveva visto l’ex moglie deportata e le sue composizioni censurate. Aveva tenuto nel cassetto la sua opera più sconvolgente, L’angelo di fuoco, che fu eseguita postuma, e per colmo di sfortuna era morto lo stesso giorno di Stalin, motivo per cui le cronache non gli avevano riservato che poche righe. Quando gli avevano riferito che il finale della sua Settima sinfonia era troppo amaro per il governo e andava cambiato, Prokof’ev aveva risposto: “Ormai non me ne importa nulla”. I primi biografi omisero quell’ormai, trasformando una dichiarazione di resa in una dichiarazione di sfida.

Prokof’ev era morto insieme a Stalin. Shostakovich aveva continuato a vivere sotto Krushev e Breznev. Ma anche lui avrebbe potuto dire “Ormai non me ne importa nulla”. Alla morte della madre aveva distrutto tutte le sue lettere, come per dire che ormai era morto anche lui. La sua ultima sinfonia, la Quindicesima, l’aveva composta su pochi pentagrammi perché la polio gli rendeva faticoso scrivere.

Alla morte di Shostakovich, molti suoi amici decisero che non volevano fare la sua fine. Rostropovich espatriò e aiutò dall’estero intellettuali dissidenti. Kondrashin, durante una tournée, chiese asilo politico all’Olanda. Era il 1978.

 

6. La fine

Kondrashin era un artista decorato. Le autorità sovietiche diedero ordine di ritirare dal commercio i suoi dischi. I nastri originali delle sue registrazioni vennero distrutti. Suo figlio, che era ingegnere del suono, riuscì a salvarne alcuni. Ma la famiglia non lo seguì all’estero. La moglie e i figli rimasero in Russia, e Kondrashin restò solo. Fu un forte dolore. Ma lui era più forte e trovò una nuova compagna nella musicologa Nolda Broekstra.

Acclamato, risposato, registrato e ripreso dalle televisioni, Kondrashin affascinava tutto il mondo libero, da Amsterdam a Tokyo. Ma la sua avventura si fermò dopo tre anni. Un infarto, e Kondrashin non c’era più. A 67 anni non c’era più. Era il 3 luglio del 1981.

Cosa aveva di speciale Kondrashin? Era intelligente. Non tutti i geni lo sono. E se lo sono, tendono a nasconderlo. Le ore di studio, i ragionamenti, i dubbi li tengono per sé. Mostrano il risultato come se fossero nati con quel risultato addosso. Non rivelano il loro segreto. Kondrashin si divertiva a spiegarlo, aveva la gioia, l’ironia, il carisma di un grande affabulatore. Vederlo dirigere è come vedere un matematico estrarre, anziché radici cubiche, radici di suoni. Aveva grinta, fantasia, precisione. La morte dovette portarselo via in fretta, per evitare che vincesse anche su di lei.

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