Vivian e il nonsenso del mondo

In nessuno dei suoi autoritratti Vivian Maier fotografa direttamente se stessa: si riprende sempre nel riflesso di uno specchio o di un vetro. Qualche volta si fotografa solo come ombra. Questo per dire che, nella sua arte, lei stessa sta come un oggetto fra gli oggetti. La sua visione sembra scaturita da un’attività autonoma della macchina fotografica, quasi che gli scatti fossero stati casuali. E casuali sembrano, per come colgono particolari istantanei che un momento dopo non ci sono più, per come ignorano quasi sarcasticamente regole della buona inquadratura e lasciano abbondantemente figure mezze dentro e mezze fuori. D’altra parte, a uno sguardo anche disattento è palese che la composizione di queste immagini ha un’armonia classica, che corrisponde a un preciso senso dell’inquadratura. Chi ha osservato i negativi, può assicurare che la percentuale di successo nei provini di Vivian è altissima. Pochissimi sono gli scarti. Un genio spontaneo? Io credo che Vivian Maier, della cui vita si sa così poco, abbia lavorato moltissimo, in segreto, per raggiungere i suoi risultati, pur senza avere dei maestri. L’eccezionale lavoro di un genio spontaneo e inconsapevole, allora? Andiamoci piano: chi ci assicura che fosse inconsapevole? La personalità di Vivian è un labirinto: più ci si avventura e più porte si aprono, più viene alla luce sul suo conto e più il mistero si infittisce. La realtà è forse che conosceva perfettamente il valore della sua opera, ma non si sentiva a suo agio con un’umanità di cui diffidava e da cui si sentiva guardata con diffidenza. Stendere il segreto sul proprio lavoro non sempre è un atto autodistruttivo, un atto di sfiducia in se stessi. Può essere anche un gesto di orgoglio, se non si ritiene il mondo all’altezza dell’opera che si compie.

Se Chiara Romanini fotografa l’anima della materia, Vivian Maier l’anima la abolisce del tutto e ritrae uomini e cose partecipi di una stessa vicenda, trascinati dal medesimo destino. È la visione inequivoca di un mondo senza dei. Sotto un cielo sgombro di dei la vita è fatta di un accumulo smisurato di casi. Casi fortuiti, irripetibili, che l’occhio della fotocamera ha il privilegio di poter immortalare. Ma è un triste privilegio, giacché il momento resta comunque perduto per sempre e nessuna opera può riavvolgere il nastro della storia, riportare la felicità a quel punto, o riportare in vita il morto che compare nella foto… Ecco perché un sentimento d’inutilità che altrimenti parrebbe patologico. L’arte di Vivian Maier ha a monte la perdita di qualsiasi teologia e teleologia -anche la teleologia dei laici. Eliminato il senso del sacro dalla vita, resta soltanto un accumulo sciocco e non motivato di momenti, ognuno dei quali è già parzialmente corroso dalla morte. Vivian fotografa quei momenti, quella particolare espressione sul volto della donna del tram, quel gruppo di bambini, quegli operai con le facce abbrutite o quel gruppo familiare. E tutto questo per strada, perché la strada è il luogo dove si è in cammino. In cammino verso dove? Verso altri gruppi familiari, altre espressioni, altri particolari, e così all’infinito finché ci sganciamo da questa catena con la morte. E allora la catena continua senza di noi, con l’entrata in scena di qualcun altro al posto nostro. Quello che Vivian ha fotografato è l’assoluta mancanza di senso del reale, la mancanza di ogni scopo, di ogni logica in quello che accade. In un romanzo o in un film c’è sempre uno sviluppo che porta a qualcosa: è difficile che un testo scritto non porti a nulla. Noi abbiamo inventato la parola proprio perché portasse da qualche parte, abbiamo una visione teleologica perché abbiamo la parola. Un gatto non ha una teleologia. Di Vivian Maier si dice che parlava poco. Mi piace immaginare che questa donna silenziosa fosse talmente poco intrisa della mentalità della parola da immergersi nella mancanza di scopo del mondo, e rappresentarla. Che le sue foto siano come le foto che scatterebbe un gatto, se avesse la facoltà di usare una fotocamera.

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